domenica 29 giugno 2008

Chi se ne fotte

Sergio Baratto
Il primo amore

Riassunto delle puntate precedenti.

Alla maggioranza dei cittadini non interessano che due (*) cose: che caccino gli stranieri dal sacro suolo e che taglino le tasse.Di tutto il resto – militarizzazione del territorio, smantellamento dell'impianto laico dello Stato, morti sul lavoro, erosione dei diritti dei lavoratori, stato d'eccezione permanente, asservimento dell'informazione, asservimento della magistratura, leggi ad personam, leggi xenofobe, perversione giuridica del concetto di reato (è cominciata una sinistra mutazione semantica: il "crimine" tende a non denotare più un atto, bensì uno stato; come dimostra in maniera tragica il caso dei Rom, criminali non si sarà più per ciò che si fa, ma per ciò che si è), repressione del (residuale) dissenso, involuzione autoritaria dello stato e della società – chi se ne fotte?Anzi no: "Chi se ne fotte", senza punto interrogativo. Non è una domanda, è un'asserzione.
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La bancarotta dei contadini

GIAMPAOLO VISETTI
Repubblica

La fattoria dell' Europa porta al mercato il suo ultimo prodotto: i suicidi. Tra Cremona, Brescia, Mantova e Reggio nell' Emilia, in due anni, sono aumentati del 32 per cento. Disprezzata e infine ignorata, corrosa dalle crisi, l' agricoltura italiana espelle la scoria estrema: gli uomini. La condanna si consuma mentre la domanda di cibo, ed i prezzi, esplodono. Troppo tardi. Nelle cascine si cercano braccia, ma non ci sono più nemmeno le teste. I vecchi tornano con gli occhi agli anni Cinquanta, spartiacque tragico della fuga dalle campagne. Il granista Doriano Zanchi, 36 anni, è stato trovato nella corte due giorni fa. Ha avviato il trattore. Poi si è seduto davanti, contro il porticato. Nelle golene, lungo il Po, sono i pioppi a proteggere chi, ricontrollato l' estratto conto, si affida a certi rami leggeri. Un invisibile, drammatico passaggio storico sta spazzando via chi si è ostinato ad aggrapparsi alla terra: la contro-rivoluzione dell' agricoltura virtuale, fondata su aziende senza contadini e su prodotti senza valore. Se anche la Baviera italiana liquida silenziosamente la sua anima, significa che il processo è irreversibile.
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domenica 22 giugno 2008

Armi improprie

Lo stupro è stato classificato come “arma di guerra” e, in quanto tale, condannato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il commento, divertentissimo, di Ballardini in questo articolo su Macchianera

sabato 21 giugno 2008

Coke?

Da una precisa posizione, una figura opportunamente disegnata crea nell'osservatore l'illusione della profondità.
Tale effetto è detto anamorfismo: "Anamorphic illusions drawn in a special distortion in order to create an impression of 3 dimensions when seen from one particular viewpoint."

Julian Beever e Kurt Wenner sono due artisti specializzati in questa tecnica. I risultati sono, a mio parere, strabilianti.

Il morso del Caimano

Curzio Maltese
Repubblica

È un po' ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l'amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l'insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2. Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l'Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all'enorme potere mediatico del premier. Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l'assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d'urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti.

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Anche se è uno Zombie Innocuo, la “Class Action” all’Italiana fa Paura a Confindustria

Un ottimo articolo su Mentecritica

mercoledì 18 giugno 2008

Impariamo dalle api

MARIO RIGONI STERN

la Stampa.it

I vecchi e fedeli lettori di questo nostro giornale si ricorderanno bene di quanto scrivevo delle mie api; la prima volta fu nell’aprile del 1977 e, a guardarsi le spalle, sono passati più di trent’anni. Non sono pochi.

Ricordo anche quel ragazzo che ero ottant’anni fa quando le osservavo sui prati e attorno alle arnie del signor Augusto. Ricordo anche che in Russia, durante quel brutto inverno del 1942, era a noi manna quel poco miele che qualche volta trovavamo nelle povere isbe. Fu poi verso la pensione, non poco stanco dell’ufficio del catasto e un po’ per insufficienza di interessi, che mi riprese l’antica passione. E da tre fratelli apicoltori comprai due arnie.

Fu davvero una buonissima cosa e presi a scriver per i miei lettori le esperienze dilettantesche sulle api, e a leggere quanto mi capitava in proposito di insetti sociali. Dal Piemonte e dalla Liguria i lettori mi scrivevano facendo utili osservazioni o chiedendo pareri. Insomma ci scambiavamo le nostre esperienze. Con le api e con i lettori ci fu un ottimo rapporto. Ricordo che nel primo anno raccolsi una trentina di chili di miele molto buono e mezzo chilo di cera. Era miele di tarassaco, di timo serpillo e di tiglio; la cera era molto profumata.

Via via con gli anni, con lo studio e l’osservazione e la pratica e, naturalmente con le sciamature, aumentai le arnie e la produzione. Non si trattava solamente di raccogliere il miele che le api producevano, ma anche segnare sul diario le date, il tempo, la fioritura, le sciamature, le smielature e da dove presumevo venissero i raccolti. Avevo miele da radure di erica, dal bosco, dalla montagna sovrastante; polline da crochi e da saliconi. Era bello seguire i loro voli e con il compasso, prendendo come centro le mie arnie, segnavo il territorio a cerchi per capire i luoghi di raccolta, fu una bella esperienza.

Il miele che ricavavo in più lo regalavo a parenti e amici, la cera la usavo per rendere più veloci i miei sci e per i mobili di casa; la davo anche a un amico ex campione olimpionico che la usava per fabbricare famose scioline per il fondo. Dalle pareti delle arnie, dal tettuccio e dai favi raccoglievo la propoli che è quella resina arricchita da sostanze elaborate dalle api per mummificare insetti estranei o nocivi dentro l’arnia, o per chiudere le fessure, fissare i telaini; io la uso per medicare ferite o scottature, è preziosa come medicamento e d’inverno io la brucio sulla brace per purificare l’aria della casa. Quando nella tarda primavera dentro l’arnia c’erano celle reali in più succhiavo la pappa reale. Dicono che fa bene ai vecchi e che mantiene giovani. Ha un sapore acidulo ma non sgradevole. Sapore di vita? Forse.

Miele, cera, propoli, pappa reale, polline questo mi davano le mie api e da trent’anni la mia colazione mattutina è latte da vacche al pascolo, pane e miele. Ora, per ragioni di età, ho dovuto smettere di fare l’apicoltore dilettante e ho donato le api, arnie, attrezzature varie, a un appassionato con poche possibilità economiche. Ho conservato il cappello, la cera e la propoli. Seguo l’andamento stagionale dell’apicoltura e mi scelgo i mieli.

È di questi giorni un allarme dell’Unione Nazionale Apicoltori. Dicono che l’apicoltura è in una grave crisi, che la produzione del miele quest’anno è calata del 20-50% e che gli stessi consumi sono diminuiti. Peccato; forse le monocolture estese e la lavorazione meccanica del terreno avranno certamente influito sulla flora mellifera: una fioritura simultanea e poi nulla non è favorevole; anche la stagione non è quest’anno come le precedenti: caldo, siccità, grandinate anche alle api portano carestia. Può capitare ogni tanto una stagione no. Ora sono, siamo, condizionati più che in passato dall’ambiente e dal clima ormai compromessi dall’attività dell’uomo; questo animale che si crede onnipotente e interviene pesantemente a consumare natura, che non è inesauribile.

Per l’allarme di questa stagione insolita ho telefonato a quattro apicoltori per sentire le loro opinioni. Tre, per tradizioni di famiglia, vivono di questo lavoro, il quarto è proprietario di centinaia di arnie che nel tempo dell’anno pratica il nomadismo dalla Calabria alle Alpi. Sì, hanno i loro problemi ma nessuno è catastrofico. Sono del parere che per conservare le api in buona salute ci vogliano cure, attenzione al clima, alle fioriture e nello scegliere buone regine. Oggi le migliori vengono dalla Germania dove si selezionano ceppi che provengono dalla Siberia meridionale e dalle repubbliche dell’Asia centrale; assicurano che sono più resistenti alle malattie.

Mi considero un dilettante ma quando c’era siccità tenevo a loro disposizione acqua pura e fresca; se non c’era raccolto di nettare o polline le aiutavo con miele e polline che avevo messo da parte nel tempo dell’abbondanza e nell’autunno le proteggevo dal freddo con opportuni ripari, lasciando sufficiente nutrimento fino a primavera.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=3355&ID_sezione=&sezione=

domenica 15 giugno 2008

Un messaggio dell'imperatore

Franz Kafka
1917

L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte.

Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero.

Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine.

Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.

Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera.

sabato 14 giugno 2008

La mafia ha ucciso Rostagno

Davide Varì
Liberazione

La notizia, attesa da vent'anni, è di quelle che ti fanno riappacificare con la giustizia: «Gli assassini di Mauro Rostagno saranno chiamati a difendersi nei prossimi mesi di fronte alla Corte di Assise di Trapani». A rivelarlo è Enrico Deaglio con un'ampia inchiesta pubblicata sull'ultimo numero di Diario, numero da oggi in edicola. Il merito va ad Antonio Igroia, il magistrato palermitano che non ha mai mollato la presa e, dopo dodici anni di inchiesta, ha chiesto il rinvio a giudizio per Vincenzo Virga organizzatore dell'agguato al giornalista torinese che, pare, fu commissionato da Totò Riina in persona.

Sembra proprio che questa volta il Pm Ingroia, abbia una prova definitiva, «una prova decisiva» grazie alla quale si farà finalmente luce su una vicenda caratterizzata da depistaggi, veleni e manovre oscure. Una vicenda simbolo di quella fitta rete di misteri che caratterizza il nostro Paese.Ma andiamo con ordine, partiamo da quel 26 settembre del 1988, la notte in cui Mauro Rostagno fu assassinato con quattro colpi di fucile calibro 12 e due colpi di pistola calibro 38 special.Da quel giorno in poi l'indagine si mosse in tutte le direzione tranne che in quella del delitto di mafia. Tranne che nel sentiero oscuro e insanguinato di Cosa nostra. Del resto Rostagno era diventato un vero "rompicoglioni". Si era messo in testa di fare il giornalista e lo fece come una missione: «Ho scelto di non fare televisione seduto dietro a una scrivania - scriveva al suo vecchio compagno Renato Curcio - ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono».

E fu quel suo vizio, il vizio di spulciare tra le pieghe di quella Sicilia martoriata dalla mafia, la sua condanna a morte. La storia di Rostagno è nota, e nel suo lungo articolo Enrico Deaglio la ripercorre tutta. Mauro Rostagno, finito il suo tormentato pellegrinaggio intellettuale e spirituale - dalla facoltà di Sociologia di Trento al viaggio in India - nel 1987 approda in Sicilia dove fonda la comunità Saman per tossicodipendenti e alcolisti. Insieme a lui Chicca Roveri, sua moglie, e quel Francesco Cardella che aveva conosciuto in India.«In quello stesso anno - racconta ancora Deaglio - Mauro entra per la prima volta negli studi televisivi di Rtc, una piccola emittente privata». Nel giro di un anno diventa il personaggio televisivo più noto in città.

Questa la giornata tipo del Rostagno giornalista: «Otto di mattina, lettura dei giornali; poi primo giro con le telecamere: si fa il giro per raccontare i cumuli dei rifiuti che non vengono raccolti. Si da notizia delle denunce dei cittadini e delle inchieste: dalla scoperta delle logge massoniche, alle malversazioni amministrative. Infine si intervistano i magistrati più impegnati, per esempio Paolo Borsellino, procuratore di Marsala». Una presa diretta su Trapani che infastidiva, faceva schiumare rabbia a tutti coloro che agivano nell'ombra e che non avevano certo bisogno di una telecamera sguinzagliata tra le procure e tra i vicoli più bui della città. «Quarchi vota ch'attapanu 'u musu», prima o poi gli tappano la bocca, ripetevano consapevoli i più avvertiti. Nel 1988 arriva il giorno dello scoop: con una piccola telecamera si piazza dietro le piste di decollo e atterraggio di Kinisia (ex aeroporto militare poco lontano da Marsala).

«Alla luce del tramonto - racconta Deaglio - filma un C130 dell'Aeronautica italiana che scarica casse di medicinali e carica casse di armi dirette in Somalia. E' convinto di aver raggiunto un grande tassello all'ipotesi che da Trapani mafia e servizi segreti gestiscano un traffico di armi e droga». Va a Palermo per informare Giovanni Falcone e cerca contatti anche con il Pci. Sa bene che quella che ha in mano è roba che scotta.In quei giorni Angelo Siino, fiduciario di Cosa Nostra, sa già che contro Rostagno c'è una condanna a morte. E allora va dal proprietario della Tv consigliandogli di farlo smettere: "Ho cercato di non farlo uccidere", confiderà in seguito a un magistrato.«Alla fine cosa nostra - continua Deaglio nel suo lungo articolo inchiesta - commissiona l'omicidio di Rostagno al capomafia di Trapani Vincenzo Virga.

La data prescelta è il 26 settembre. Alle 21 è già buio e ancora più buio è il tratto di strada sterrata che Rostagno deve percorrere alla guida della sua Fiat Duna. Accanto a lui c'è Monica Serra una ragazza della comunità che lavora con lui a Rtc. Nel frattempo un tecnico Enel, Vincenzo Mastrantonio, che di secondo lavoro svolge l'attività di autista del capomafia Virga, ha provveduto a spegnere l'illuminazione della zona».E' il momento dell'agguato: una Fiat Uno tampona l'automobile di Rostagno. I killer iniziano a sparare. Rostagno è colpito da otto colpi in testa e alla schiena. All'obitorio di Trapani, dove giace il cadavere martoriato, i carabinieri diffondono la notizia che in macchina Mauro aveva un rotolo di dollari e due siringhe di eroina.Di certo c'è solo che qualche tempo dopo Vincenzo Mastrantonio viene trovato cadavere nelle campagne di Lenzi. «Parlava troppo».

Nel 1996 accade quello che nessuno si aspettava: «Il procuratore di Trapani Gianfranco Garofalo convoca, gioisco e spavaldo una conferenza stampa per annunciare la soluzione del "caso Rostagno". Il delitto, secondo la sua inchiesta, è maturato dentro la comunità Saman per gelosie, adulteri, traffico di droga e ammanchi finanziari». Quindi manda in galera la moglie Chicca Roveri, accusata di essere l'organizzatrice del delitto, e Monica Serra, la ragazza scampata all'agguato sarebbe infatti una complice. Poi l'annuncio finale: «Bisognava capirlo dall'inizio - dichiara il procuratore Garofalo - Si doveva poter escludere il coinvolgimento di Cosa nostra che del delitto non voleva e soprattutto non doveva essere gratuitamente incolpata».

Le ipotesi del Pm crollano però in breve tempo. Nel frattempo pentiti affidabili e di primo piano, tra questi un "certo" Giovanni Brusca, attribuiscono alla mafia l'organizzazione del delitto.Le carte arrivano infine ad Antonio Ingroia. Dopo dieci anni di indagini il Pm siciliano riesce a trovare la prova definitiva. La traccia è in un bossolo esploso la notte del 26 settembre del 1988. Un segno inequivocabile: quel colpo è stato esploso da una pistola di mafia.

Di chi è la colpa?

di Marco Cedolin
da Il corrosivo


La strage sul lavoro accaduta a Mineo, costata la vita a 6 operai, fa il paio con il rogo della Thyssenkrupp di pochi mesi fa, mesi costellati da uno stillicidio praticamente continuo di lavoratori che hanno perso la vita, uccisi non si comprende bene da cosa e da chi. Il Presidente Napolitano ha espresso cordoglio, i sindacati hanno espresso cordoglio, il circo equestre della politica ha espresso cordoglio, gli imprenditori hanno espresso cordoglio, gli intellettuali hanno espresso cordoglio, i giornalisti hanno espresso cordoglio, i magistrati hanno indagato 7 persone fra cui il sindaco di Mineo e 4 assessori della sua giunta.

Tutti, tranne i magistrati che stanno provando a fare il proprio dovere, hanno affermato che tragedie come questa non devono accadere mai più, ma perché questo possa avvenire sarebbe logico domandarsi di chi è la colpa della vera e propria ondata di morti sul lavoro (e a causa del lavoro) che ha investito la UE, arrivando a determinare un decesso ogni 3 minuti e mezzo e quali siano le contromisure da mettere in atto per ridimensionare il fenomeno. E’ colpa degli imprenditori che rosicchiano profitto a spese della sicurezza dei lavoratori? E’ colpa dei sindacati, sempre più vicini ai banchetti di Confindustria, che i lavoratori non riescono a difenderli? E’ colpa della politica, sempre più appiattita sui grandi interessi economici, che non riesce ad elaborare un’adeguata normativa sulla sicurezza del lavoro? E’ colpa dei lavoratori stessi che per pigrizia non mettono il casco, come ha affermato dalla CGIL nel corso di un’indagine concernente un proprio cantiere? E’ colpa degli organismi preposti al controllo che in realtà non controllano un bel nulla?

Quasi tutti questi soggetti e molti altri ancora, fra quelli che ad ogni strage esprimono cordoglio, hanno senza dubbio molte pesanti responsabilità, ma non si tratta solamente di colpe specifiche, bensì soprattutto della colpa collettiva di avere contribuito a costruire un “mondo del lavoro” come quello di oggi. Tutti coloro che esprimono cordoglio e promettono “mai più!” hanno sponsorizzato e continuano a sponsorizzare la precarietà che comportando la presenza, anche in mestieri pericolosi, di personale scarsamente formato e privo di esperienza specifica determina un incremento esponenziale del rischio d’incidenti. Tutti costoro continuano a portare avanti una battaglia senza senso, finalizzata ad aumentare gli orari di lavoro e favorire la pratica degli straordinari, ben sapendo che l’eccessiva stanchezza e il conseguente rallentamento dei riflessi sono all’origine di molte fra le morti sul lavoro.

Tutti costoro hanno fatto della competizione sfrenata e della produttività esasperata la loro bandiera, nonostante all’interno di questi atteggiamenti si celino insidie potenzialmente esplosive per chi lavora in preda alla frenesia. Tutti costoro hanno coccolato e stanno coccolando sempre più un “mercato del lavoro” imperniato sull’esclusione, dove il lavoratore letteralmente terrorizzato dalla prospettiva di ritrovarsi disoccupato, è indotto con la forza del ricatto ad accettare qualunque condizione disagiata e pericolosa, anche la più estrema, e sono proprio queste condizioni a determinare una larga parte degli incidenti.

Il cordoglio non basta, così come non basta dire “mai più!” se una volta esaurite le frasi di circostanza e la dose giornaliera d’ipocrisia, ognuno di questi soggetti continuerà a prodigarsi, come ha fatto fino ad oggi, per costruire un mondo del lavoro sempre più simile ad una giungla, una giungla dove si muore facilmente, senza sapere chi ti sta ammazzando.

venerdì 6 giugno 2008

L'estetica di Superciuk

di Franco Ricciardiello

Carmilla

La semplificazione non è una scorciatoia per rappresentare un’idea in maniera sintetica: è un processo di riduzione che elimina tutte le sfumature, per arrivare a un contrasto bianco/nero, uno/zero, inutile per una vera comprensione. La semplificazione riduce la capacità di pensiero. Per tentare una comprensione del mondo, la complessità è indispensabile: abbiamo bisogno di una mappa efficace per descrivere un territorio di complicazione tale da risultare irriducibile. La semplificazione imbarbarisce il senso estetico, la percezione della complessità invece ne favorisce lo sviluppo.
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L'infiltrato speciale

di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola

Lavocedellevoci.it

Quando la notizia venne battuta per la prima volta dalle agenzie, non pochi addetti ai lavori stavano per saltare sulla sedia: lui, Renato Farina, l'agente Betulla dei servizi segreti militari, sarebbe stato candidato alla Camera col Popolo delle Liberta' di Silvio Berlusconi. Non pochi sono andati a rileggersi le motivazioni con cui Farina il 29 marzo 2007 era stato radiato dall'Ordine dei giornalisti: «Il comportamento di Farina - si legge nel provvedimento - resta incompatibile con tutte le norme deontologiche della professione giornalistica ed ha provocato un gravissimo discredito per l'intera categoria. E non solo in relazione alla vicenda Abu Omar e ai rapporti con Pio Pompa. E' Farina che, nelle sue difese, rivela e rivendica un ruolo in una trattativa con Milosevic, ruolo che autorevoli membri del governo dell'epoca negano abbia mai avuto. E' Farina che fa riferimento a suoi rapporti con un servizio ultrasegreto statunitense (una Cia parallela agli ordini diretti di Condoleezza Rice). E' Farina che dichiara ai magistrati di aver accettato dai servizi all'incirca 30 mila euro». Oggi l'onorevole Renato Farina siede in Parlamento. Per la precisione, e' membro della commissione Cultura, Scienza e Istruzione, nonche' della commissione Agricoltura. Ed impartisce lezioni di correttezza istituzionale a deputati di lungo corso..
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