martedì 28 dicembre 2010

Un ottimo articolo, scritto da un decennio...

L'Autore si è tolto la vita quest'anno in circostanze a dir poco originali.

PIÙ STATO MENO MERCATO


DI JOHN KLEEVES
centroitalicum.it/

La leggenda del capitalismo e del libero mercato

Dimenticate Marx e pensate ex novo al Capitalismo. Cosa si intende per Capitalismo? Un’economia di libero mercato, il quale lasciato a sé stesso e senza interventi statali permette la creazione di grandi ricchezze concentrate.
Si intende questo, eppure se ci pensiamo vediamo che con un mercato veramente libero non potrebbero affatto crearsi grandi ricchezze concentrate: con un mercato veramente libero non potrebbe esserci il Capitalismo!
Il fatto è che le grandi ricchezze concentrate, diciamo le grandi aziende, per nascere e mantenersi hanno bisogno sempre di opere pubbliche, di opere della collettività.

Immaginiamo ogni grande azienda, di qualunque settore, ai suoi albori. L'industria dell'auto per esempio. Dopo l'invenzione del semovente in vari Paesi degli imprenditori pensarono alla produzione di massa. Hanno venduto bene le prime serie, ma poi avrebbero dovuto fermarsi: era necessaria una rete stradale adatta. Ma in un mercato libero lo Stato non ti fa le strade perché devi vendere le tue auto ma ti dice: se le vuoi compra i terreni e asfalta, caro il mio imprenditore privato, e rispetta i diritti dei confinanti, che sono liberi cittadini in un libero mercato.

Avrei voluto vedere come avrebbero potuto svilupparsi i colossi del settore, come la Ford o la Fiat: avrebbero dovuto comprare striscia di terra dopo striscia di terra, asfaltarla, recintarla e dotarla di un'infinità di sottopassaggi e cavalcavia, curarne la manutenzione, rendere conto degli incidenti che vi avvenivano. Sarebbe stato impossibile anche il primo passo, l'acquisto dei terreni, perché ogni contadino avrebbe chiesto cifre esorbitanti è ovvio.
Sarebbe rimasto al nostro candidato capitalista delle quattro ruote il mercato militare: jeep e camion per l'Esercito, che viaggiavano sulle strade da lui fatte, per i suoi scopi. E il tutto vincolato dallo Stato (divieto di esportare, tipi di prodotti, eccetera), perché è roba di importanza strategica.
Oppure pensiamo all'industria aeronautica e alle compagnie aeree. Begli oggetti gli aerei passeggeri, ma richiedono aeroporti e in un libero mercato lo Stato ti risponde come prima: Cosa c'entro io? Fatteli! E in luoghi deserti, dove non infastidiscano nessuno col rumore, perché i miei cittadini sono liberi cittadini in un libero mercato, e hanno dei diritti.

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mercoledì 8 dicembre 2010

Una piccola storia di crisi

..da Crisis

L'affare TrimProb

Ha inventato la macchina che vede i tumori...

di Stefano Lorenzetto
(Il Giornale - 14 marzo 2010)

Un tubo lungo 30 centimetri che permette di scoprire i tumori non appena cominciano a formarsi. Una sonda elettromagnetica che vede qualsiasi infiammazione dei tessuti. Un esame che dura appena 2-3 minuti, non è invasivo, non provoca dolore o disagi al paziente,e fornisce immediatamente la risposta. Un test innocuo, ripetibile all’infinito e senza togliersi i vestiti, che ha una precisione diagnostica come minimo del 70% ma, se eseguito da mani esperte, può arrivare anche al 100% di attendibilità. Uno strumento rivoluzionario, poco ingombrante, portatile, che si può usare ovunque e che non necessita di mezzi di contrasto radioattivi, lastre fotografiche o altro materiale di consumo. Un’apparecchiatura che si compra, anzi si comprava, con 43.000 euro più Iva, contro i 3-4 milioni di euro di una macchina per la risonanza magnetica, i 2 milioni di una Pet e il milione e mezzo di una Tac, tutt’e tre con costi di gestione elevatissimi.

Allora chi e perché ha paura del bioscanner, nome commerciale Trimprob? Non certo i potenziali pazienti, che potrebbero individuare per tempo la malattia. Non certo il ministero della Salute, che lo ha inserito nel repertorio dei dispositivi medici del Servizio sanitario nazionale. Non certo il professor Umberto Veronesi, che lo ha sperimentato nel suo Istituto europeo di oncologia di Milano e ne ha decantato la validità. Eppure la Galileo Avionica, società del colosso Finmeccanica, ha annunciato la chiusura della Trim Probe Spa, l’azienda che lo produceva e lo commercializzava, messa in liquidazione in quanto ritenuta non più strategica nell’ambito di un gruppo internazionale specializzato nei mezzi di difesa militare.

Questa è l’infelice historia di un cavaliere d’altri tempi, il professor Clarbruno Vedruccio, 54 anni, l’inventore del bioscanner, laureato in fisica e in ingegneria elettronica negli Stati Uniti, già collaboratore dell’Istituto di fisica dell’atmosfera del Cnr a Bologna e docente di metodologia della ricerca all’Università di Urbino, che nei tempi presenti avrebbe meritato i premi Nobel per la fisica e la medicina fusi insieme, se solo il mondo girasse per il verso giusto, e invece è costretto a prosciugare il conto in banca per tutelare la sua creatura.

Vedruccio è arrivato al bioscanner per puro caso, mentre stava fornendo tecnologia militare avanzata ad alcuni reparti d’élite delle nostre forze armate. Pur di non lasciarsi sfuggire un simile cervello, nel 2004 i vertici della Marina hanno rispolverato la legge Marconi del 1932, così detta perché fu creata su misura per Guglielmo Marconi, l’inventore della radio, che minacciava di passare armi e bagagli agli inglesi. Arruolato «per meriti speciali» nella riserva selezionata, con decreto del presidente della Repubblica, l’Archimede Pitagorico è diventato capitano di fregata ed è stato assegnato all’ufficio studi del Comando subacquei e incursori alla Spezia. Ha anche partecipato con l’Onu alla missione di pace Leonte in Libano, dove s’è guadagnato un encomio.

Quando nel 2004 una serie di fenomeni impressionanti - elettrodomestici che prendevano fuoco, vetri delle auto che esplodevano, bussole che impazzivano, cancelli automatici che si aprivano da soli - sconvolse la vita di Caronia, nel Messinese, la Protezione civile chiamò Vedruccio per trovare il bandolo della matassa. Lo studioso accertò che il paesino dei Nebrodi veniva colpito da fasci di radiazioni elettromagnetiche con particolari caratteristiche. Se oggi gli chiedi chi fosse a emetterle, si limita a tre parole: «Non posso rispondere». L’inventore abita con la moglie Carla Ricci, sua assistente, a pochi chilometri dal radiotelescopio Croce del Nord di Medicina (Bologna). Quando si dice il caso.

Nome insolito, Clarbruno.


«Viene dalla fusione di Clara e Brunello, i miei genitori».

Lei è un fisico. Perché ha accettato di diventare ufficiale di Marina?

«Non sono né guerrafondaio, né pacifista. Ma se la guerra si deve fare, si fa. Diciamo che la vita militare è la normalità, nella nostra famiglia. Sono nato a Ruffano, provincia di Lecce. Mio nonno materno, Ettore Giaccari, disperso in mare nel 1941, era il capo motorista dell’incrociatore Fiume, affondato dagli inglesi nella battaglia di Capo Matapan. Mio padre comandava la brigata costiera della Guardia di finanza. Sono cresciuto tra la caserma e il faro di Torre Canne. Nel gennaio 1958 precipitò in Adriatico un aereo F86 e papà si gettò a nuoto nelle acque gelide per salvare il pilota. Lo riportò a riva: purtroppo era già morto. Io passai l’infanzia fra i rottami di quel caccia militare. Ricordo ancora la carlinga, i comandi, la sala radio. Il mio amore per l’elettronica è nato lì».

E il bioscanner com’è nato?

«Nel 1985 collaboravo col battaglione San Marco. Mi fu chiesto se ero in grado di mettere a punto una tecnologia per intercettare i pescatori di frodo che di notte approdavano sull’isola di Pedagna, zona militare al largo di Brindisi. Le telecamere non potevano essere installate per la troppa salsedine e le frequenti mareggiate. Stavo lavorando a una specie di radar antiuomo, come quelli che gli americani usavano in Vietnam, quando mi accorsi che alcune bande di frequenza in Uhf, fra i 350 e i 500 megahertz, quindi al di sotto dei canali televisivi, interagivano bene con i tessuti biologici delle persone».

In che modo se ne accorse?

«Volevo sperimentare la possibilità di usare l’elettromagnetismo anche per rintracciare le mine antiuomo sepolte nel terreno: il rilevatore registrava qualsiasi discontinuità nella compattezza della sabbia fino a 20 centimetri di profondità. Mentre ero nel mio laboratorio, notai che sugli analizzatori di spettro una delle tre righe spettrali spariva completamente ogniqualvolta mi avvicinavo al banco di prova. Strano. Quel giorno avevo ingurgitato un panino col salame in treno ed ero in preda a una gastrite terribile. Mi si accese una lampadina in testa. Chiamai Enrico Castagnoli, ex radarista della Marina, mio vicino di casa, e gli chiesi come si sentisse in salute. “Benone”, mi rispose. Ripetei la prova su di lui: nessuna variazione di spettro. La conferma che cercavo».

Cioè?

«Allora non potevo saperlo. Ma avevo appena provato in vivo ciò che gli scienziati Hugo Fricke e Sterne Morse intuirono e descrissero nel 1926 su Cancer Research e cioè che i tessuti sani hanno una capacità elettrica più bassa, quelli infiammati più elevata, quelli oncologici ancora maggiore. In pratica il mio bioscanner consente di fare una specie di biopsia elettromagnetica, quindi incruenta, dei tessuti biologici, grazie a tre frequenze in banda Uhf, intorno ai 460, ai 920 e ai 1350 megahertz. In particolare, il segnale sulla prima frequenza interagisce con le formazioni tumorali maligne, evidenziando un abbassamento della riga spettrale».

E individua qualsiasi tipo di cancro?

«A eccezione delle leucemie. Ma i tumori solidi su cui abbiamo indagato li ha letti tutti. Ho visto alcuni carcinomi del seno con due anni d’anticipo sull’ecografia e sulla mammografia».

domenica 24 ottobre 2010

La verità sull’11 Settembre era solo un pesce d’aprile fuori stagione: tappata a tempo di record in Germania la falla nel muro dell’omertà mediatica

Roberto Quaglia

Era un pesce d’Aprile e ci siamo cascati, ingannati probabilmente dal fatto che adesso è ottobre, cronologicamente agli antipodi di Aprile.

Avevamo riportato, pochi giorni fa, dell’incredibile fatto che la grande stampa si fosse finalmente occupata (in Germania) dei retroscena dell’ 11 settembre trattandoli per quelli che sono: una colossale truffa nei confronti del mondo intero! Si trattava di una piccola breccia nel muro dell’omertà mediatica con cui i giornalisti contemporanei nascondono, a quella parte fiduciosa della popolazione che vuole continuare a credere a ciò che fidati giornali e telegiornali raccontano loro, gli straordinari progressi dell’investigazione popolare sui fatti dell’11 settembre.

Nell’arco di dieci mesi il coraggioso giornalista tedesco Oliver Janich ha pubblicato non uno, ma ben due ampi articoli sulla importante rivista economica Focus Money, letta da centinaia di migliaia di persone. Articoli elaborati e ben argomentati, dritti al nocciolo delle cose, senza omissioni ed inganni. Avevamo ipotizzato che questo potesse essere il preludio al crollo della diga con la quale si cerca disperatamente di arginare l’afflusso della verità sul tema verso le popolazioni dell’Occidente democratico. Avevamo preconizzato uno tsunami di purissima merda il giorno che la diga fallata avesse ceduto.

Tutto sbagliato.

La falla nella diga è stata riparata a tempo di record dagli esperti ingegneri tappabuchi tedeschi della divisione “Orwell”.

L’articolo è stato infatti rimosso dalla versione online del giornale, al giornalista Janich è stato intimato di rimuovere la copia in PDF ospitata sul suo sito, ed il giornalista Janich stesso è stato epurato. Non lavorerà mai più per Focus Money. Né per le altre importanti testate con le quali aveva già collaborato, quali l’edizione tedesca del Financial Times, la Süddeutsche Zeitung ed altre.

“Nei miei confronti è già iniziata l’opera di character assassination.”Der Spiegel” ha immediatamente lanciato un attacco ad personam contro il giornalista. Ricordiamo che Der Spiegel, che adesso cerca di coprire i veri autori dell’11 settembre, in un passato affatto lontano analogamente si distinse per negare la diretta responsabilità nazista nel rogo del Reichstag nel 1933, l’evento che segnò l’affermazione finale del nazismo. Ha dichiarato Janich. La distruzione dell’immagine dei personaggi scomodi è ormai una prassi molto consueta, nell’Occidente democratico. “

Ovviamente, tutti si guardano bene dall’entrare nel merito dei fatti riportati da Janich nei suoi coraggiosi articoli. Nessuno prova a smontarne gli argomenti. Ci si limita a cercare di nascondere i cocci sotto il tappeto, sperando che la gente si dimentichi di quanto ha letto. Anche il caporedattore di Focus Money, che ha approvato gli articoli, è stato ora messo sotto pressione.

Tutto ciò sia istruttivo per chi, per inerzia, sentimentalismo o pigrizia, ancora si ostina a conservare fede nelle proprie testate giornalistiche preferite.

Una delle obiezioni che negli anni mi sono sentito rivolgere più spesso riguardo al mio libro sull’11 settembre, è stata quella che se l’11 settembre ci fosse stato un complotto governativo di tale portata, non si sarebbe riusciti a tenere le cose nascoste, qualcuno avrebbe parlato, i giornalisti avrebbero indagato. Umberto Eco stesso ha pubblicamente sostenuto questo argomento.

Adesso abbiamo l’irrefutabile dimostrazione empirica del perché questo argomento sia sbagliato.

In verità, sono stati moltissimi quelli hanno parlato, quelli che hanno fatto trapelare notizie segrete, in verità non si è riuscito a tenere le cose nascoste, in verità tutto ciò che era nascosto è in effetti saltato fuori nel tempo. Però, coloro che noi abbiamo delegato ad informarci rispetto a tutto ciò, ovvero i giornalisti, semplicemente… non ce lo hanno mai detto! Non ce lo hanno mai detto!

Ed ora abbiamo sotto gli occhi anche la prova sperimentale, la certezza empirica del perché non ce lo hanno detto!

Se un giornalista della grande stampa compie correttamente il proprio lavoro a questo proposito, perde immediatamente ogni possibilità futura di lavorare, i suoi articoli già scritti vengono cancellati, rimossi, nascosti, viene declassato per sempre al rango di innominabile paria. Oliver Janich non è il primo a subire questa sorte. Volete la lista intera?

Questo spiega perfettamente come mai il vostro quotidiano o telegiornale preferito non vi parlerà mai dei retroscena ormai assodati in merito ai fatti dell’11 settembre, e quando lo facesse, sarebbe solo per sviarvi, per vaccinarvi contro ulteriori curiosità. Se ancora è sopravvissuto nel vostro cuore un giornale o un telegiornale preferito, investite qualche minuto del vostro prezioso tempo a riflettere sul caso emblematico di Oliver Janich. Se la fede nel vostro giornale o TG sopravvive anche a queste riflessioni, guardatevi allo specchio. Negli occhi. A lungo. Chissà che non aiuti.

Mi era giunta voce che io fossi invitato a presentare il mio libro Il Mito dell’11 Settembre alla Fiera del Libro che si svolgerà a Trieste ad inizio novembre. Poi l’invito sarebbe decaduto. Per “motivi politici”. Chissà perché, la cosa non mi ha sorpreso affatto.

La mole di evidenza che dimostra la totale insensatezza della narrazione ufficiale dei fatti dell’11 settembre è tale, e continuamente cresce e si perfeziona e si consolida, che chi cerca di tenere la cosa nascosta agli ultimi ignari ormai evita a tutti i costi di entrare nel merito del problema, poiché in una discussione corretta non avrebbe alcuna chance di salvare la faccia. Per non parlare del fondoschiena.

Poiché l’epurazione di Janich costituisce una prova inoppugnabile del fatto che, proprio come nelle dittature, i giornalisti delle democrazie occidentali non sono più liberi di fare informazione come si deve, SOSTITUITEVI AI GIORNALISTI INADEMPIENTI E CONDIVIDETE QUEST’ARTICOLO CON QUANTA PIU’ GENTE POTETE, con tutti gli amici che avete, su Facebook e nella blogosfera. Molti hanno già capito da tempo come stanno le cose, ma ancora in troppi sono sentimentalmente incatenati a qualche giornale o giornalista a cui nel tempo si sono affezionati, e non vogliono rendersi conto di essere in realtà sempre stati - e di continuare a venire presi per il culo da dei mangiapane a tradimento. Forse questo piccolo caso tedesco li aiuterà a crescere.

Roberto Quaglia

www.edicola.biz


martedì 12 ottobre 2010

L’Inps nasconde la verità sulle pensioni ai precari


Il presidente dell'INPS Antonio Mastrapasqua ha finalmente risposto a chi gli chiedeva perché l'INPS non fornisce ai precari la simulazione della loro pensione futura come fa con gli altri lavoratori: "Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale".

I precari, i lavoratori parasubordinati come si chiamano per l'INPS gli "imprenditori di loro stessi" creati dalle politiche neoliberiste, non avranno la pensione. Pagano contributi inutilmente o meglio: li pagano perché L'INPS possa pagare la pensione a chi la maturerà. Per i parasubordinati la pensione non arriverà alla minima, nemmeno se il parasubordinato riuscirà, nella sua carriera lavorativa, a non perdere neppure un anno di contribuzione.

L'unico sistema che l'INPS ha trovato per affrontare l'amara verità, è stato quello di nascondere ai lavoratori che nel loro futuro la pensione non ci sarà, sperando che se ne accorgano il più tardi possibile e che facciano meno casino possibile.

Non si può non notare come anche la politica taccia su questo scandalo, ma non ci si potrebbe attendere altrimenti, perché a determinare questo scandalo hanno contribuito tutti i partiti attualmente rappresentati in parlamento, nessuno escluso.

I precari, tenuti all'oscuro o troppo occupati a sopravvivere, difficilmente noteranno la dichiarazione di Mastropasqua al Corriere della Sera e i media sembrano proprio intenzionati a non rovinare loro la sorpresa. Proprio una bella sorpresa.

http://www.agoravox.it/L-Inps-nasconde-la-verita-sulle.html

Il call center del malaffare

Andrea Palladino

Questa storia potrebbe iniziare in uno dei tanti porti turistici della costa laziale, a pochi chilometri da Roma, dove Yacht e piccoli velieri di lusso mostrano la faccia più dura della crisi, quella dei padroni e dei predoni. «Lady Canvas» è una barca da regata che ha uno sconosciuto armatore, il napoletano Giorgio Arcobello Varese. Il nome non dice nulla a chi non è passato almeno una volta nei gironi infernali dei call center, ottocentesche linee di montaggio dove il padrone della ferriera spesso si nasconde dietro vortici societari, serie di scatole cinesi che appaiono e si dissolvono a volte in poche ore. L'armatore di Lady Canvas la settimana scorsa era la persona più ricercata da un gruppo di lavoratrici e lavoratori di Pomezia, senza stipendio da circa un anno. Ultima ditta conosciuta la Herla Italia srl.

Il nome del battello di questo elegante napoletano - con la passione per i call center e i grovigli societari - ha un significato tutto particolare. Lo racconta una delle tante ragazze che ieri occupava l'edificio a specchio di Pomezia, dove lavoravano quasi 400 operatori di call center: «Il canvas è il nostro premio, che può essere un televisore, un cellulare, un computer. Lo vince chi produce, chi vende, chi riesce a prendere clienti con la telefonata vincente». Il canvas è quella specie di totem che nei call center fa girare il mondo del lavoro, ti fa sognare, ti droga di produttività e superlavoro. Chissà, forse era a questo che pensava l'armatore d'antan Giorgio Arcobello Varese, quando al suo Yacht da regata metteva quel nome misterioso, Lady Canvas. O forse era quello il suo premio, il suo sfizio per i fine settimana da skipper.

Nei circoli nautici della capitale, dove il battello fa la sua bella mostra, di certo non si parla di quei 400 lavoratori che devono ricevere in media 10.000 euro a testa di arretrati, dopo aver lavorato per anni vendendo di tutto. Da una settimana quaranta di loro hanno occupato il posto di lavoro, la palazzina a due piani nella prima periferia di Pomezia, città industriale alle porte di Roma. Sono saliti sui tetti, legandosi al cancello, ripercorrendo la strada delle migliaia di lavoratori che negli ultimi due anni sono stati travolti dalla crisi. Nel loro caso, però, il problema non è il calo delle commesse o la bufera finanziaria: nessuna cassa integrazione, nessuna mobilità, semplicemente hanno smesso di pagarli. «E la cosa più incredibile - raccontano - è che i nostri committenti, Edison e la Matrix, la società che vende spazi pubblicitari su virgilio.it hanno sempre regolarmente pagato le commesse».

Dall'Irlanda alla Romania

«Siamo arrivati in questi giorni, chiamati dai lavoratori che sono in una situazione disperata», raccontano Gianni Leonetti della Cgil Pomezia e Dino Oggiano, della Slc-Cgil del Lazio. Scorrono le visure camerali, leggono contratti di cessioni di rami di azienda, tracciano sui fogli bianchi i complessi incroci societari che girano intorno a Giorgio Arcobello Varese. «Vedrai che lui appare solo come un socio minoritario - raccontano i lavoratori - ma in realtà tutti qui sanno che è Giorgio il padrone. Tant'è che da quando abbiamo iniziato a protestare lui non si è fatto più vedere ed ora manda solo il suo avvocato». Come in altre storie di call center e lavoratori abbandonati al vertice delle piramidi societarie ci sono gruppi finanziari nascosti fuori dal confine italiano.

La Herla Italia srl dipende dalla Herla Holding, società con sede a Dublino, in Irlanda. Lo scorso marzo ha stretto un contratto di affitto di ramo d'azienda da un'altra società del gruppo, la Sercomm srl, ereditando - come si legge dal contratto - 327 dipendenti operativi, 22 non operativi e 15 collaboratori, per un totale di 364 lavoratori. Gran parte di loro era stato «stabilizzato» negli anni passati, ovvero assunto con contratto a tempo indeterminato. Lavoratori stabili, garantiti, che avevano raggiunto la loro metà. «Hanno iniziato a non pagarci più, quando già avevamo degli arretrati dalla precedente azienda, che ci aveva ceduto alla Herla», spiegano. Non solo. Con il tempo gli operatori del call center si accorgono che neanche i contributi venivano versati, ed iniziano a preoccuparsi. «Eppure siamo un'azienda in piena attività - racconta un ragazzo trentenne - tanto che in quattro mesi un gruppo di soli 15 operatori è riuscito a portare un fatturato di un milione di euro: adesso ci pagheranno, ci siamo detti». E invece nulla accadeva, salvo scoprire che i soldi entrati erano serviti ad aprire un call center in Albania e un altro in Romania.

Tutti contro tutti

Il colpo di scena arriva a settembre. Per prima cosa vengono individuati all'interno della azienda i lavoratori più difficili da gestire, quelli che si permettevano di chiedere il rispetto dei diritti, di contestare i rifiuti ad effettuare le pause garantite dal contratto e, soprattutto, di esigere il pagamento degli stipendi. Una quarantina in tutto, in buona parte ragazzi con esperienza, che conoscevano già bene l'azienda dove lavoravano. «Ci hanno isolati, sono arrivati a vietare agli altri di parlare con noi durante le pause», spiegano. Un mese fa Giorgio Arcobello Varese e la moglie, Marilena D'Orazio, hanno invitato uno ad uno i lavoratori più morbidi - o forse impauriti dalla sola idea di perdere il lavoro - ad una convention in un hotel a Pomezia. «Lei, Marilena, ha iniziato a piangere, si faceva abbracciare - racconta oggi chi ha partecipato - e alla fine a chi era andato all'incontro hanno proposto l'accordo che li avrebbe salvati». Tre pagine in tutto, decisamente vergognose: «Per seicento euro dovevi rinunciare ad ogni pretesa, compreso il contratto a tempo indeterminato, per poi essere assunto, diciamo così, con contratto a progetto, in una nuova società». Ed ecco che come per magia centinaia di lavoratori di una società non in crisi si trasformano da ingombranti dipendenti in leggeri, leggerissimi e decisamente più ricattabili collaboratori «a progetto». La nuova società, la Fidecomm, era pronta a prendere il testimone, negli stessi locali, con gli stessi compiti e, forse, con una parte delle stesse commesse.

Computer e minacce

La scorsa settimana i quaranta esclusi dall'accordo capestro hanno capito che ormai il loro destino era segnato. Hanno occupato i locali, salendo sul tetto dello stabilimento, prima, e di un grattacielo abbandonato poco dopo. Per ora nessuno ha mandato i vigilantes per cacciarli, come avvenne con Eutelia. «Qualcuno, però, ci ha chiamato sui cellulari - raccontano delle lavoratrici - e con accento del sud ci hanno detto che se non andavamo via qualcosa di brutto sarebbe accaduto. Chiamavano da numeri inesistenti, come avviene a volte con i sistemi dei call center». Per ora, durante la notte, mani abili e anonime hanno fatto sparire i due computer dell'amministrazione, entrando da una porta esterna senza forzare la serratura e poi simulando la rottura dell'ingresso interno, come a voler far ricadere la colpa sui lavoratori che occupano i locali.

Venerdì scorso gli avvocati delle società hanno offerto un primo pagamento di 900 euro - la maggior parte di loro deve ricevere più di 10 mila euro - e un tavolo di trattativa davanti al prefetto. Sembra chiaro, dunque, che il gruppo amministrato da Giorgio Arcobello Varese ha fretta di liberare i locali e di avviare la nuova società. «Ma noi non ce ne andremo fino a quando non verranno pagati tutti gli stipendi - scandiscono i lavoratori di Herla - e fino a quando non verranno rispettati tutti i diritti. Nessuno può dividerci». Due facce della crisi, lo yacht del padrone e la resistenza coraggiosa di chi quella barca l'ha pagata.

Link: http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/10/articolo/3494/

giovedì 7 ottobre 2010

Pappa e ciccia


Una risata ci seppellirà

Alessandro Robecchi
Il Manifesto

L’orchestrina che suonava sul Titanic, pur con l’acqua alle ginocchia, aveva almeno il suo stile. Le filastrocche zozze delle osterie cantate da ebbri, pur terribili, contengono qualcosa di schiettamente popolare.

Così come l’Italietta gretta-gretta dei campanili e dei localismi beceri partoriva tra tanto obbrobrio almeno i suoi caratteri letterari, i don Camilli, i Pepponi, i cumenda, i “teroni”, roba spicciola, ma vera, oro zecchino in confronto alla rivoltante scenetta andata in onda ieri all’ombra di Montecitorio. “Il patto della pajata”, scrivono le cronache, e ci sguazzano, in quella che si chiama “informazione soft” di cui si gonfiano i telegiornali. Coda alla vaccinara versus polenta, rigatoni e lambrusco, a suggellare la tregua controvoglia tra la Lega scorreggiona e il generone romano, tra il Bossi del dito medio e l’Alemanno sindaco piccolo-piccolo di una città grande-grande, con una Polverini governatice in vernacolo (vedemo, annamo…) al cui confronto la sora Lella sembra Rita Hayworth.

Il potere travestito da popolino, e di lui più grezzo e becero, e al tempo stesso finzione schifosa di un incontro per dovere, di due poteri che si odiano e che sono costretti ad andare a braccetto per non far crollare il castello, non far finire a processo il capo, portare a casa interessi contrapposti che si tengono in piedi come costruzioni precarie, ognuna poggiata sulle deboli pochezze dell’altra.
Calderoli a bocca piena, Polverini che imbocca Bossi, La Russa aggressivo e Gasparri gasparrico come al solito, dialetti incrociati e rivendicazioni gastro-territoriali, in un enorme disegno di Grosz che descrive tutta la ripugnanza e lo schifo di un potere logoro e sazio, incapace di qualunque sfida che non sia volgarità e insulto. Weimar, al confronto, pare Topolinia.

Troppo facili le ironie su questo incrocio tra suburra e Bagaglino, su questo intrecciarsi di povertà culturali che regna sul paese, e lo schiaccia. Film di quart’ordine e di volgarità assoluta, così come le barzellette del capo supremo e la di lui ricchezza. La trappola è nota: il colore, la nota satirica, lo sberleffo che strappa la risata e castiga, o prova a farlo. Ma non è – questa volta – una trappola in cui cadere. Troppo facile, e troppo poco, e anche impossibile – va detto – mettere in burla questo potere più di quanto faccia lui stesso. Intorno, dietro, accanto, un Paese impoverito e stanco, bloccato dalle cricche, senza modernità, neppure più quella feroce del mercato, ridotto a trastulli di potentati etnico-affaristici. Solo pochezze infinite e teatrini, di cui non ridere nemmeno, tanto che pure i militanti del Pd, con i loro stornelli di scherno alla scenetta patetica dei rigatoni e della polenta, partecipa al gioco, fanno parte per così dire del desolante quadretto, fanno cadere le braccia tanto quanto.

Senza conflitto, senza speranza, senza fronti avversi che possano scuoterlo, il potere deve fare da sé pure quello: crearsi la sua opposizione da dentro, farsi la sua satira da sé, ridicolizzarsi da solo. Con la bocca piena di sugo e il boccone nel gozzo, il rutto facile, la battuta al posto del ragionamento, la menzogna al posto della verità, la barzelletta al posto del racconto e la puttana al posto dell’amore. La pajata, la polenta, er vino, la risata sgangherata e il volemose bene che copre l’affilar di coltelli e gli interessi – banche, nomine, poltrone – zozzi pure loro. Cerimonia esemplare di quello che un paese non dovrebbe, non vorrebbe mai essere. E invece probabilmente è. Questo è quanto. Una prece, e chi può, si metta in salvo.

link:
http://www.alessandrorobecchi.it/index.php/201010/editoriale-una-risata-ci-seppellira

giovedì 16 settembre 2010

Superpensioni e doppi redditi

Salvatore Cannavò
(da Il Fatto quotidiano)

Lo Stato chiede sacrifici, blocca gli stipendi, taglia i servizi agli enti locali, quindi ai cittadini, ma continua a sperperare e a incubare sacchi di sprechi e privilegi. Un esempio di questa situazione è dato dalle pensioni pubbliche incassate, mese dopo mese, da diversi dirigenti di Stato, parlamentari, ex presidenti del Consiglio o ex presidenti della Repubblica, che risultano pensionati dell'Istituto dei dipendenti pubblici, l'Inpdap, ma che, allo stesso tempo, continuano a percepire importanti compensi per i loro incarichi pubblici. Siano essi parlamentari, consulenti di ministeri, ministri o ex ministri, senatori a vita, tutti godono di importanti indennità rigorosamente pubbliche e a carico del bilancio generale.

Contemporaneamente, percepiscono anche una pensione pubblica. Ma non la pensione che si possono immaginare lavoratori e lavoratrici dipendenti "normali", cioè 700-800 euro al mese, quando va bene 1000 o 1200 euro. No, qui parliamo di emolumenti un po' più corposi: 3 o 4 mila euro al mese, quando va male; quando va bene si arriva a 8 mila e anche a 12 mila euro al mese. Del resto, la Legge 133/2008, la prima "manovra" economica di Tremonti - quella fatta "in 9 minuti" - ha abrogato, dal 2009, il divieto di cumulo, salvo alcune eccezioni, tra reddito di pensione e reddito di lavoro dipendente e autonomo. Così la somma di due redditi, in particolare se pubblici, è del tutto lecita.

Peccato che quella stessa legge ha mantenuto le restrizioni per i titolari di pensione di invalidità e di reversibilità. In questi casi, infatti, permangono le restrizioni della riforma Dini, che impongono un taglio progressivo dell’assegno se gli altri redditi superano un determinato importo. Così come sono state mantenute le restrizioni per i seguenti soggetti: lavoratori part time che percepiscono la metà della pensione; lavoratori socialmente utili che percepiscono trattamenti provvisori; titolari di assegni straordinari per il sostegno del reddito pagati dai fondi di solidarietà; i dipendenti pubblici riammessi in servizio nella PA; titolari di assegni contributivi conseguiti con meno di 40 anni di contributi ovvero prima dell’età pensionabile e senza i requisiti previsti dalla legge 247/2007.

La pensione di Draghi

Per il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, il cumulo invece è possibile e la norma applicata dal governo Berlusconi ha avuto un valore significativo.

L'alto dirigente italiano, molto stimato in Patria e fuori, tanto da essersi visto assegnato l'incarico di presidente del Financial Stability Board, la commissione del Fondo monetario internazionale incaricata di garantire la stabilità finanziaria nel mondo, non può certo lamentarsi del compenso di cui gode per l'alto incarico che svolge. Eppure, accanto alla sua indennità d'oro, Mario Draghi incassa ogni mese una pensione lorda di 14.843 euro che diventa di 8.614,68 euro al netto delle ritenute. Fino al 2008, tra le ritenute c'era anche la trattenuta per cumulo tra pensione e reddito da lavoro, una condizione che al Governatore "costava" circa 4500 euro al mese. Dal gennaio 2009, questa riduzione della pensione è stata eliminata e così si arriva all'attuale assegno mensile. Un reddito con il quale si vive non male al centro di Roma, sostenendo un tenore di vita medio-alto. Insomma, Draghi il Governatore della Banca d'Italia potrebbe farlo anche gratis. Ma, battute a parte, sarebbe sufficiente sospendere la pensione pubblica fino a quando è in carica nel suo servizio per far risparmiare allo Stato un bel po' di soldini. Da notare che il Governatore, tra i più accaniti sostenitori della necessità di alzare l'età pensionistica per tutti, uomini e donne, beneficia del suo assegno mensile dal 2005, il che vuol dire che è andato in pensione all'età di 58 anni.

Non ha più incarichi di governo o similari ma in quanto a collezione di cariche prestigiose Giuliano Amato non scherza. E' il presidente dell'Enciclopedia Treccani, da quest'anno è stato nominato senior advisor della Deutsche Bank e soprattutto Presidente del Comitato Garanti per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia in sostituzione del presidente Ciampi. E' poi ex parlamentare, ex primo ministro e gode quindi delle relative indennità. Eppure, accanto a tutto questo, incassa anche una pensione lorda mensile di 22 mila euro che si traduce in un assegno netto di 12.518 euro. Vale la pena di ricordare che si tratta di un importo pari a 20 volte (venti volte) una pensione al minimo che oggi è pari a 530 euro mensili e che è appannaggio di milioni di persone. Lo segnaliamo per amor di cronaca.

Il cumulo di Brunetta

Andiamo avanti con segnalazioni eccellenti. Il nemico giurato dei "fannulloni" pubblici, colui che vorrebbe "colpirne uno per educarne cento" e per il quale i dipendenti dell'amministrazione pubblica certo non stravedono fa parte di questa lista di privilegiati. Renato Brunetta, infatti, all'età di 60 anni si è messo in pensione come docente percependo una pensione che, paragonata a quelle precedenti, sembra modesta ma che comunque equivale a 3 mila euro netti al mese. Però Brunetta è parlamentare e ministro e a occhio e croce dovrebbe intascare circa 20 mila euro al mese che gli provengono sempre da denaro pubblico. Più la pensione. E che dire di un altro fustigatore del lavoro dipendente, di uno che vorrebbe portare l'età pensionabile a chissà quale limite, sempre in prima fila a chiedere correzioni liberiste al bilancio dello Stato dal quale, però, incassa una pensione di 6.385 euro al mese godendo, contestualmente, dell'indennità di parlamentare che, ricordiamo, sfiora, tutto compreso, i 15 mila euro al mese. Parliamo di Giuliano Cazzola, classe '41, già dirigente generale del Ministero del Lavoro, impegnato in Cgil fino ai primi anni 90 e poi spostatosi su posizioni "liberalsocialiste" in linea con alcuni suoi "compagni" di partito come Sacconi e Brunetta. Oltre a essere parlamentare, Cazzola è anche professore a contratto presso l'Università di Bologna e collabora con diversi giornali quotidiani.

Indennità a vita

Poi ci sono alcuni casi più che curiosi. Parliamo dei senatori della Repubblica, ma quelli veri, i "padri" della Patria, i senatori a vita. Citiamo solo due esempi, collocati su posizioni diverse: Giulio Andreotti e Oscar Luigi Scalfaro. Il primo, ha una "pensioncina" di 3.440 euro netti che gode dal 1992. Contemporaneamente, oltre a essere stato praticamente tutto nella storia della Repubblica è anche senatore a vita. Insomma, ha una indennità vitalizia garantita e potrebbe certo fare a meno di quella pensione pagatagli dall'Inpdap. Stesso discorso per Scalfaro che, oltre a essere senatore a vita è stato anche Presidente della Repubblica e che usufruisce di un assegno mensile di 4.774 euro.

E poi tanti altri casi, di centrodestra o di centrosinistra. L'ex ministro Scajola che probabilmente a sua insaputa, percepisce una pensione netta di 2.625 euro in qualità di dipendente Inpdap - dove però giurano di averlo visto poco - e che è anche parlamentare (e vedremo cosa ci riserverà il futuro); Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera, una vita in Parlamento ma anche pensionato pubblico con 3.258 euro al mese; il pd Giuseppe Fioroni, la cui pensione impallidisce al cospetto delle altre, ma che pure all'indennità parlamentare aggiunge 1.218 euro al mese. Fino ad arrivare a Antonio Di Pietro, andato in pensione all'età di 45 anni, nel 1995 e titolare di una pensione di 1.956 euro al mese a cui aggiunge le altre indennità cui ha diritto.

Uno studio dei Cobas-Inpdap - autori di un volumetto in cui sono state pubblicate queste cifre - stima in circa 25 mila i fruitori di pensioni cumulate ad altri redditi provenienti da consulenze, incarichi parlamentari e altro. «Se si applicasse ai personaggi riportati nel nostro elenco (oltre ai già citati ci sono anche Mario Baldassarri, Sergio D'Antoni, Publio Fiori, Giorgio Guazzaloca, Antonio Martino, Andrea Monorchio, Girolamo Sirchia e altri ancora ndr.) il divieto di cumulo - ci spiega Ettore Davoli, del Cobas Inpdap di Roma - in quanto percettori di altri redditi, che non sono certo redditi da fame, potremmo avere un risparmio di circa 193 mila euro mensili». Il risparmio complessivo potrebbe essere quindi molto alto, se non i 3 miliardi calcolati dal Cobas sicuramente una cifra compresa tra 1 e 2 miliardi di euro. Una piccola manovrina e una misura di equità.

Link originale :

http://www.ilmegafonoquotidiano.it/news/superpensioni-e-doppi-redditi

lunedì 2 agosto 2010

Quanto sei bella Roma..

..da Piovono Rane

LUCI ED OMBRE DELLA MEDICINA CONVENZIONALE

Franco Libero Manco

da Luigiboschi.it

Nel 1535 Jacques Cartier salpò dalle coste della Francia diretto verso Terranova con un equipaggio di 110 uomini. In 6 settimane 100 uomini si ammalarono di scorbuto. Un indigeno disse loro di bere succhi dei frutti di un albero che crescevano in quella zona e gli uomini guarirono nel giro di pochi giorni. Da quell'episodio capitani di navi accorti e lungimiranti comandarono al loro equipaggio di consumare succhi di arancia e limone per scongiurare lo scorbuto. Ci volle molto tempo prima che il mondo medico accettasse questa semplice soluzione, ma alla fine nel 1795 dovette soccombere al buon senso e il succo di limone diventò obbligatorio nella dieta dei marinai.

Uno dei motivi per cui le infezioni sono così numerose in ospedale è che molti infermieri amano più gli antibiotici che lavarsi le mani. Quando nel 1843 Oliver W. Holmes suggeriva ai medici di cambiare gli indumenti e lavarsi le mani dopo aver visitato i pazienti affetti da febbre puerperale le sue richieste vennero completamente ignorate. Anche l'avvento dell'anestesia è stata per lungo tempo trascurata se non osteggiata dal mondo medico e venne ufficialmente accettata soltanto quando la regina Vittoria diede alla luce il principe Leopoldo sotto l'effetto del cloroformio. Fino al 1980 era prassi comune operare i bambini senza anestesia perché si riteneva che fossero incapaci di provare dolore.

Da dati riportati da vari libri e giornali, pare che oggi i medici causano più malattie e decessi del cancro o delle cardiopatie. Una persona su 6 si trova in ospedale a causa del medico. Le reazioni negative ai farmaci sono la quinta causa di morte negli Usa perché i medici non comprendono i pericoli associati ai farmaci. Il 40% delle persone che assume farmaci subisce pesanti effetti collaterali, daltronde nessuno può stabilire in anticipo quali saranno le conseguenze sulla salute di un farmaco lanciato sul mercato. Molte più persone vengono uccise dai farmaci prescritti che dall'uso illegale di droghe. Solo in Australia ogni anno vengono ricoverate quasi mezzo milione di persone perché dei medici li hanno fatti ammalare e 18.000 di questi muoiono ogni anno a causa di errori medici, tossicità dei farmaci, errori chirurgici ecc., mentre negli Usa i casi di mortalità a causa dei medici si aggira intorno alle 200.000 unità. E le cifre in Europa non sono più incoraggianti dove medici e medicine pare che uccidono più persone di tutti i tipi di cancro. In realtà i medici rappresentano una delle principale causa di malattie e morte molto più di tutti gli altri tipi di problemi messi insieme, compreso cancro e malattie cardiache.

Daltronde, come afferma la stessa rivista British Medical Journal, 6 trattamenti su 7 non sono supportati da prove scientifiche. Il problema di fondo è che gran parte della ricerca medica è organizzata, pagata, commissionata e sponsorizzata dall'industria farmaceutica che è fatta per produrre buone recensioni e non certo arrecare danno a se stessa. Pare che molti degli scienziati implicati sono pronti a modificare i risultati dei loro esperimenti se questi non danno i risultati sperati. Si calcola che almeno il 12% delle ricerche scientifiche siano false.

Anche gli esami e le analisi per le diagnosi mediche pare non siano affidabili: non riescono a prevedere l'andamento di una malattia nel 50% dei casi. Dei patologi hanno effettuato diverse centinaia di autopsie scoprendo che più della metà dei defunti era morto per una causa diversa da quella diagnosticata, praticamente aveva ricevuto un trattamento medico sbagliato. E se la vita media si è allungata (ma non certo il benessere della persona) ciò non è dovuto ai medici e alle medicine ma all'igiene, all'acqua corrente, al riscaldamento centralizzato, al poco lavoro, alla riduzione della mortalità infantile, alla carenza di guerre. Ci sono più malati oggi di quante ce ne siano stati in tutta la storia umana. In sostanza si può dedurre che dopo i 65 anni di età il cittadino è un peso per lo Stato e cerca di sostituirlo con chi produce.

Il numero delle persone che muoiono a causa dei medici è 4 volte maggiore di quello delle persone che muoiono per incidenti stradali. Praticamente il medico ha più probabilità di ucciderci della nostra automobile. In realtà i medici oggi sono solo un canale commerciale dell'industria farmaceutica e gran parte dei medicinali che prescrivono non si conosce gli effetti perché tutti i medicinali, nessuno escluso, sono sperimentati sugli animali. Insomma i medici uccidono più persone di quante non ne curino e causano più malattie e disagi di quanti ne riescano ad alleviare: il motivo è da ricercare nel fatto che la classe medica è in stretta alleanza con l'industria farmaceutica.

Almeno il 70% degli esami e dei test richiesti dal medico non sono necessari. Un sondaggio ha dimostrato che le analisi del sangue e delle urine consentono al medico di formulare una diagnosi esatta solo all'1% dei casi. Uno studio recente ha dimostrato che su 93 bambini cui erano state diagnosticate malattie di cuore solo il 15% erano realmente malati.

Se si dovesse classificare l'industria del cancro in base al suo fatturato sarebbe tra le più importanti del mondo; ma se la si dovesse considerare in base alla sua capacità di sconfiggere la malattia che si prefigge di combattere sarebbe tra le industrie più fallimentari del pianeta.

Nel 1970 una persona su 6 poteva ammalarsi di cancro; nel 1980 il rischio era raddoppiato; nel 1990 si arriva a circa il 40%. Non solo, oggi il tasso di sopravvivenza al cancro è lo stesso del 1950. I tempi della dichiarata guarigione dal cancro rientrano nei 5 anni: se una persona muore dopo 5 anni e un giorno il caso verrà considerato un successo. Sembra che lo scopo dominante sia tenere in vita il paziente per quei 5 anni. Uno studio approfondito ha dimostrato che i pazienti che avevano rifiutato i trattamenti convenzionali del cancro sono vissuti in media tre anni di più. In realtà la guerra contro il cancro è stata un fallimento come quella contro la droga. E i medici che osano consigliare terapie alternative, naturali, vengono sistematicamente isolati, scherniti, disprezzati.

I risultati delle ricerche mediche dipendono da chi le finanzia. Ma nessuno sembra interessato a scoprire perché ci si ammala di cancro, o di qualunque altra patologia: questo farebbe diminuire i profitti e il fatturato. Nessuno ha intenzione di far capire alla gente che il nostro organismo è in grado di neutralizzare, senza l'ausilio di medici e medicine, di 9 malattie su 10 .

Un gruppo di ricercatori ha esaminato le cartelle cliniche di 100 pazienti: solo il 53% degli infarti era stato diagnosticato. Nel corso di uno studio è stato chiesto a 80 medici di esaminare un modello di seni femminili al silicone: i medici sono riusciti a trovare solo metà dei noduli anomali nascosti. Un altro studio ha dimostrato che su pazienti in punto di morte una diagnosi su 4 era sbagliata e che il 70% dei deceduti sottoposti ad autopsia presentavano patologie gravi mai state diagnosticate. In un altro studio avente per oggetto 400 autopsie in più della metà dei casi era stata formulata una diagnosi sbagliata. Anche gli errori della lettura di raggi X si aggira intorno al 30% e anche quando le radiografie vengono visionate una seconda volta solo un terzo degli errori commessi viene individuato.

Nel 1950 un bambino su 14 si ammalava di cancro; nel 1985 la cifra era salita a uno su 4 e nonostante gli ingentissimi finanziamenti le industrie ricercatrici non sembrano provare il minimo imbarazzo per l'abissale fallimento, anzi continuano a chiedere altri e poi altri fondi. In realtà la scienza medica non sa come affrontare il cancro. Se una persona ammalata di cancro e si fa visitare da tre medici diversi riceverà sicuramente tre diverse terapie.

Il problema è che la quasi totalità dei medici non accetta che ci sia un legame tra stile di vita e malattia, tra cibo e cancro, anche se la National Academy of Sciences afferma che il 60% dei casi di cancro nelle donne e il 40% negli uomini sono collegati a fattori nutrizionali. Anche la Britisch Medical Association calcola che almeno un terzo dei casi di cancro è attribuibile all'alimentazione, anche se il legame tra grassi-proteine animali e cancro è ormai inconfutabile. Negano l'esistenza tra stress e sistema immunitario, tra tossiemia e malattie congenite. Ma i medici si ostinano a ignorare tale equazione e si rinnova la nemesi karmica che da millenni grava sulla classe medica, a danno della popolazione.

Fin da quando fu introdotta la mammografia al seno mediante raggi X i medici si accorsero che poteva procurare più casi di cancro di quanti non ne rilevasse. Ogni dose media di raggi X equivale ai danni di 6 sigarette.

Alcuni studi negli Usa hanno dimostrato che l'incidenza del cancro in una determinata zona di un determinato paese aumenta con il numero dei medici presenti in quella zona. La propensione per la radiografia da parte dei medici forse spiega tale fenomeno.

Spunti tratti dal libro "Come impedire al vostro medico di nuocervi" di Vernon Coleman

Ma anche se il meccanismo instaurato in campo medico ha allontanato i medici dal principio ippocratico che recita "Primo non nuocere", ritengo ingiusto trascurare l'importante contributo della medicina e di molti medici i quali, con vero spirito di sacrificio personale, in molte circostanze risultano determinanti per alleviare sofferenze e salvare molte vite, specialmente nei casi di emergenza. L'operato dei medici dovrebbe essere improntato a combattere le cause delle malattie e considerare simultaneamente l'entità umana in tutte le sue componenti fondamentali ed quindi uscire della logica settoriale e dei sintomi in una visione olistica in cui la medicina naturale rientra come branca insostituibile e complementare per il bene integrale dell'uomo.

"Un medico è un uomo che viene pagato per raccontare delle fandonie nella camera del malato, fino a quando la natura

non l'abbia guarito o i rimedi non l'abbiamo ucciso" (A. Furetière).

"Un terzo di ciò mangiamo serve a vivere, gli altri due terzi a far vivere i medici" (Papiro egiziano).



mercoledì 7 luglio 2010

Quei nove centesimi nelle tasche dei contadini

Carlo Petrini
www.repubblica.it

Crollano i prezzi dei prodotti agricoli e le aziende sono sempre più in perdita. Ecco perché serve un nuovo patto tra consumatori e contadini

Che cosa si può comprare oggi con 9 centesimi di euro? Non bastano per un sms, forse sono sufficienti per pochi chiodi. Non mi viene in mente molto altro, se non che è il prezzo all´ingrosso di un chilo di carote. Ma è soltanto uno dei tanti esempi possibili se parliamo di cibo. È probabile che i lettori non se ne siano accorti perché a loro costa sempre uguale se non di più, ma i prezzi che spuntano i contadini sono in declino costante da anni. Le aziende agricole producono quasi tutte in perdita e la cosa passa sorprendentemente sotto silenzio. A qualcuno importa ancora della nostra agricoltura?

Dal dopoguerra a oggi il settore non è mai stato così in crisi come adesso: si pensi soltanto che un quintale di grano viene pagato tra i 13 e i 15 euro, a un prezzo decisamente più basso di addirittura vent´anni fa, quando ne costava 25. Solo nell´ultimo quinquennio ha perso il 30% circa. E nel mezzo c´è stata l´inflazione dei costi di produzione: come rilevano le associazioni di categoria, oggi produrre un ettaro di grano a un contadino costa 900 euro, mentre ciò che ne ricava sono 600 euro. Sfido chiunque a non farsi passare la voglia di lavorare a queste condizioni. Tutti i settori vivono questa crisi: le stalle di bovini e suini stanno subendo una vera e propria ecatombe. Solo nel settore lattiero-caseario siamo passati da più di 180 mila stalle nell´89 alle attuali 43 mila circa. Il prezzo medio dei suini, al chilo, nel 1990 era di 1,2 euro, nel 2009 è lo stesso.

Siamo arrivati al punto che andrebbe bene il commercio equo e solidale per i nostri contadini, e non per quelli dei Paesi poveri. Secondo dati ufficiali, nel 2009 i prezzi all´ingrosso sono diminuiti rispetto all´anno precedente del 71% per le carote, del 53% per le pesche, del 30% il grano, del 30% il latte, del 19% l´uva e il trend quest´anno non sembra migliorare, anzi. Una volta i contadini dicevano che il riso era l´unico prodotto che dava loro una certa sicurezza, perché anche se tutto andava male un minimo di guadagno lo offriva sempre. Beh, neanche il riso si salva, se nell´ottobre 2009 costava quasi 50 euro al quintale e oggi arriva a 30.

Un disastro di proporzioni mai viste, ma forse se ne stanno accorgendo soltanto i contadini, sempre più disperati. Perché a noi la carota pagata 9 centesimi ai contadini continua a costare un euro al chilo, con l´incredibile ricarico del 1100 per cento. Il latte, pagato la miseria di 30 centesimi al litro, lo compriamo a più di un euro e le pesche, che al chilo valgono più o meno come un litro di latte, ci costano invece quasi due euro.

È pazzesco, eppure è la norma e non fa più notizia. E non sono cose congiunturali: sono strutturali. La nostra agricoltura è ancora per fortuna fatta di tante aziende medio-piccole, e questa è sempre stata la nostra vera forza. Diversità, radicamento sul territorio che ha fruttato anche in termini di bellezza relativa della nostra nazione, la capacità di preservare la biodiversità che è anche espressione culturale, di un´evoluzione lenta e attenta, principale risultato del nostro "adattarci localmente". Ma queste aziende medio-piccole hanno il futuro segnato se non ci saranno cambiamenti forti, con la capacità di guardare al lungo periodo. La nostra agricoltura per quanto originale nel contesto europeo non è immune dai processi di industrializzazione, centralizzazione e ancora di più concentrazione che hanno investito le agricolture dei Paesi del Nord Europa, della Francia, della Gran Bretagna, sul modello di ciò che è avvenuto negli Stati Uniti: è l´idea che si possa produrre cibo senza contadini. Tanto il cibo lo si fa viaggiare; tanto bastano pochi addetti che si trasformano in operai a cottimo per le grandi industrie o le catene di distribuzione.

Abbiamo una delle agricolture anagraficamente più vecchie d´Europa. Abbiamo un contadino giovane, sotto i 35 anni, ogni 12,5 agricoltori con più di 65 anni. Niente di paragonabile a Francia e Germania, dove lo stesso rapporto scende rispettivamente a 1,5 e 0,8. Significa che in Germania ci sono più persone in agricoltura con meno di 35 anni che con più di 65. E se non bastano gli anziani, arrivano gli immigrati, che visto l´andazzo non è poi tanto sconveniente sfruttare anche in maniera violenta. L´altro giorno ero a Zibello, cittadina diventata marchio internazionale di qualità per via del culatello. Sulle panchine del paese ho visto delle donne con il sari indiano. «Gli indiani riescono a sopportare la vita grama dei nostri vecchi» mi è stato detto quando ho chiesto perché erano lì.

Chi altri vuole sopportare questa vita grama? Nessuno, e il problema è proprio quello. Come si fa a vivere se il cibo viene pagato così poco? Se le campagne non hanno più uomini e donne che le popolano e le mantengono vive? Sotto lo scintillìo degli scaffali nei nostri luoghi di spesa spesso c´è un commercio che tende ad avere le stesse caratteristiche di quello nei Paesi in via di sviluppo: sfruttamento, intermediari che fanno il bello e il cattivo tempo, infiltrazioni della malavita che fa viaggiare i prodotti a puro scopo speculativo, contadini che alla fine si riducono in miseria e devono mollare. È la faccia triste del progresso, il risultato cui tutte le agricolture "moderne" e "competitive" saranno destinate se non ci si rende conto che il lavoro contadino va riconosciuto, rispettato, premiato, incentivato, protetto, portato in palmo di mano come base profonda e intelligente della nostra società. Forse ci vogliono meno industrie e più persone nelle campagne.

I fanatici del Pil questo non lo capiscono, bollano come "poesia" la vendita diretta (in costante crescita), i mercati dei contadini, la piccola produzione che non è in grado di far viaggiare merci per tutto il mondo ma riesce bene a coprire il fabbisogno dei mercati locali. Senza contadini sparirà anche il "made in Italy" agro-alimentare: non basteranno le industrie a spacciare una menzogna, ovvero prodotti sempre più finti, di peggiore qualità, sempre più omologati su un livello medio-basso. E la colpa sarà di tutti, la colpa è già di tutti.
I commercianti: sette gruppi di grande distribuzione si spartiscono il 98% del loro mercato. I ricarichi tra il prezzo finale e il prezzo di origine sono altissimi. Questi soggetti sono i più potenti, più forti delle multinazionali delle sementi, perché con quest´oligopolio sono in grado di condizionare qualità, caratteristiche, prezzi alla produzione. Se "mangiare è un atto agricolo" - e dobbiamo prenderne tutti coscienza - anche distribuire è diventato un atto agricolo, ma in negativo: quando il prodotto non ha le caratteristiche richieste non viene ritirato, e la leva del poter decidere i prezzi è micidiale. In questo modo si orienta l´agricoltura, s´instaura un meccanismo che fa tendere alle grandi concentrazioni, che per questi gruppi sono più facili da gestire.

Non voglio prendermela troppo con la grande distribuzione perché concorre a questa situazione insieme a tutti gli altri soggetti coinvolti nei processi del cibo, ma il principale gruppo operante in Italia era nato nel secolo scorso per difendere i diritti dei più deboli, per rendere il cibo accessibile ad ampie fasce di popolazione. Ancora oggi punta molto sui diritti del consumatore nelle sue pubblicità, e gli va riconosciuto che molti passi avanti in questo senso sono stati fatti, ma voglio far notare che il lavoro svolto a favore dei contadini non viene sufficientemente comunicato e, aggiungo, deve essere implementato. Parlo della Coop perché ritengo sia un soggetto forte in grado di sviluppare una trasformazione virtuosa. Quando mio nonno, socialista, macchinista ferroviere, nel lontano 1920 costituiva con altri "compagni" la cooperativa di consumo di Bra, la sua città, aveva chiare le finalità solidaristiche di questa istituzione. Rivitalizzare oggi queste finalità significa costruire un nuovo patto tra contadini e cittadini, rafforzare l´informazione, la tracciabilità dei prodotti, l´educazione alimentare, sostenere l´agricoltura locale e la stagionalità dei prodotti. A coloro che mi dicono che questo già avviene dico che non è sufficiente. A coloro che mi dicono che non è sostenibile dal punto di vista finanziario dico che è l´unica politica in grado di rilanciare la Coop in un contesto di grande crisi.


Ma è facile dare la colpa agli altri, piuttosto rendiamoci conto che neanche noi siamo esenti da responsabilità. Quando leggo che, a fronte del problema delle mozzarelle blu che sono spuntate come puffi un paio di settimane fa, ci sono state reazioni "possibiliste" dei consumatori («Io le compro lo stesso, perché costano pochissimo, poi al massimo se vedo che sono blu le butto via») mi rendo conto che siamo vicini a un punto di non ritorno. Conta soltanto più il prezzo, pretendiamo prezzi così bassi che non possiamo neanche più lamentarci se la qualità è scadente. Al massimo si spreca, si butta via. Del resto, la qualità neanche la sappiamo più riconoscere. Insorgiamo per le zucchine a sei o sette euro d´inverno quando non ci rendiamo conto che è folle chiedere le zucchine d´inverno. Adesso che sono in stagione, per la cronaca, costano un euro o poco più. Se noi per primi, come consumatori, piccoli ingranaggi indispensabili al sistema, non cominciamo a renderci conto che il cibo va pagato il giusto, che ha valore e non soltanto prezzo, che dobbiamo aiutare i contadini perché "mangiare è un atto agricolo", allora non cambierà mai niente, e la nostra agricoltura morirà seriale, finta e omologata come in tanti altri Paesi del mondo che hanno già commesso questi errori. Vedi gli Stati Uniti, dove non a caso si sta assistendo a un vero e proprio rinascimento guidato dai foodies, persone che hanno a cuore il loro cibo e quello dei loro figli, si riforniscono nei mercati contadini, sviluppano reti di vendita diretta su internet, invogliano una nuova generazione di giovani a diventare contadini o chef che fanno del locale e dell´ecosostenibilità delle bandiere da apporre su cucine strepitose.

Mi chiedo quando avremo una politica agroalimentare degna di questo nome, che educhi i cittadini a scelte responsabili, sostenibili e piacevoli, che dia una mano a quei contadini che producono in maniera corretta per il loro e il nostro bene. Non vedo segnali forti né al governo né all´opposizione. Per anni gli agricoltori sono stati assistiti con sussidi a pioggia, depauperando così il loro modo di produrre e fare impresa, e oggi sono isolati e gabbati. Dobbiamo aspettare anche noi che la buona agricoltura ci muoia tra le braccia? Perché nessuno scende in piazza per difendere i contadini? Ci vuole un rinascimento che non guardi solo al Pil, che vada al di là degli interessi di categoria sussidiati per mantenere in vita un´agricoltura che, se non è già morta, è destinata a farlo presto. Un rinascimento che, credetemi, non è poesia come molti invasati del Pil sostengono. È un rinascimento che parte dall´agricoltura ma non è soltanto agricolo. È di vera civiltà.


sabato 12 giugno 2010

Che facciamo in Afghanistan?

Gli americani, secondo stime che risalgono al 2009, hanno perso 850 uomini, gli inglesi 216, i canadesi 131. la Danimarca 26. Da allora sono caduti altri 200 soldati della Nato

di Massimo Fini

Il Fatto

Dopo l'agguato talebano che è costato la vita a due nostri militari ferendone gravemente altri due, il ministro della Difesa La Russa si è affrettato a chiarire che “non è stato un attacco all'Italia”. Certo, nella colonna di 130 mezzi che trasportava 400 uomini c'erano americani, spagnoli e soldati di altri nove Paesi che, nella regione di Herat, occupano l'Afghanistan. È stato un attacco alla Nato. Riaffiora però qui la retorica, tipicamente fascista, degli "italiani brava gente" che, a differenza degli altri, sanno farsi voler bene dalla popolazione che quindi non li prende di mira. Sciocchezze. Gli italiani sono odiati esattamente come tutti gli altri occupanti, con l'eccezione negativa degli americani che sono odiati di più perché tutti sanno, in Afghanistan e altrove, che questa guerra è voluta da Washington e che il presidente-fantoccio Hamid Karzai, che nel Paese non gode di alcun prestigio perché mentre negli anni '80 i suoi connazionali si battevano con straordinario coraggio contro gli invasori sovietici lui faceva affari con gli yankee, è alle dirette dipendenze dell'Amministrazione Usa. Non è per la morte di due soldati che dobbiamo lasciare l'Afghanistan
Continua su Il fatto

L'asino morto

Un giorno Billy comprò da un contadino in Texas un asino per 100 dollari.
Il contadino gli assicurò che gli avrebbe consegnato l’asino il giorno seguente.

Il giorno dopo il contadino si recò da Billy e gli disse: “Mi dispiace ma ho cattive notizie: l’asino è morto.”
Billy rispose: “Allora dammi indietro i miei 100 dollari”
E il contadino: “Non posso, li ho già spesi”.
A quel punto Billy si fece pensieroso, poi disse al contadino: “Va bene, allora dammi l’asino morto.”
- “E che te ne fai di un asino morto, Billy?”
- “Organizzo una lotteria e lo metto come premio”
Il contadino gli disse ironico: “Non puoi vendere biglietti con un asino morto in palio”.
Allorché Billy rispose: “Certo che posso, semplicemente non dirò a nessuno che è morto”.

Un mese dopo il contadino incontrò di nuovo Billy, così gli chiese: “Come è andata a finire con l’asino morto?”
- “L’ho messo come premio ad una lotteria, ho venduto 500 biglietti a due dollari l’uno e così ho guadagnato 998 dollari”
- “E non si è lamentato nessuno?”
- “Solo il tipo che ha vinto la lotteria, e per farlo smettere di lagnarsi gli ho restituito i suoi due dollari”

Billy attualmente lavora per la Goldman Sachs.

N.B. Esistono moltissime varianti della storia, questa l'ho presa qui

domenica 2 maggio 2010

I compagni di Zarathustra

di Alessandra Colla

alessandracolla.net

«Ho trovato più pericoli tra gli uomini
che in mezzo alle bestie,
perigliose sono le vie di Zarathustra.
Possano guidarmi i miei animali!»

F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra

È la fine dell’estate quando, venerdì 21 settembre 1888, Friedrich Nietzsche lascia Sils-Maria, in Alta Engadina, per ritornare a Torino. Vi era stato per la prima volta fra l’aprile e il giugno di quello stesso anno, e si era innamorato a prima vista di quella città così quieta e raccolta — «il primo posto dove io sono possibile», come scrive lui stesso. Tutto, di questa bomboniera padana, lo affascina: l’autunno, eccezionalmente splendido; le strade, le gallerie, i palazzi ricchi di grazia resa un po’ polverosa dalla storia e dal tempo; la cucina eccellente e a buon mercato; la gente cortese che impara presto a benvolere il mite professore in pensione (il ragazzo che ogni sera, al ristorante, gli porta il “Journal des débats”, la fruttivendola che gli tiene da parte la frutta migliore…).


La nuova dolcezza del vivere quotidiano — gentilezza, premure, consistenti miglioramenti dello stato di salute — incrementa l’attività intellettuale di Nietzsche, che lavora a pieno ritmo: nel giro di poche settimane termina L’anticristo, cura la stampa del Crepuscolo degli idoli e a metà ottobre inizia l’autobiografia: Ecce homo. Come si diventa ciò che si è. Alla fine di novembre decide di pubblicare l’ Anticristo e di farne non il primo libro della Trasvalutazione di tutti i valori, ma la Trasvalutazione stessa.

Scrive molte lettere: a Brandes, a Strindberg, a Gast, a Fuchs e a molti altri, dalle quali traspare un’intensa eccitazione psichica, che sembra placarsi soltanto con la frenetica produzione intellettuale. A metà dicembre scrive un nuovo opuscolo su Wagner, Nietzsche contra Wagner, e si dedica alla rielaborazione di Ecce Homo (il testo autentico si è perso, a causa delle censure e dei tagli operati dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth, e da Peter Gast; ancora oggi dobbiamo accontentarci di una sua ricostruzione). Tra la fine di dicembre e l’inizio del gennaio 1889 nascono i Ditirambi di Dioniso, e nello stesso periodo Nietzsche decide di non pubblicare il Contra Wagner. Sono i giorni in cui divampa la fiamma nel cuore e nella mente del filosofo.


Giovedì 3 gennaio 1889, Nietzsche esce di casa. Per strada, in via Po, assiste ad una scena non insolita e non peggiore di tante altre recitate da analoghi attori: un carrettiere ubriaco che bastona il suo cavallo. Indignato, Nietzsche si getta fra l’animale e il suo tormentatore; la folla fa capannello, accorre un agente di polizia. Nietzsche si schianta al suolo, esanime. L’affittacamere, richiamato dalla confusione, si precipita in strada, s’intromette, soccorre il suo pensionante e lo riporta a casa: il professore torna subito in sé, ma soggiace a un delirio destinato a non cessare più, come provano i molti «biglietti della pazzia» indirizzati nei giorni seguenti agli interlocutori più disparati — Cosima Wagner, gli amici, il popolo polacco, Umberto I di Savoia. Questo, in poche parole, lo scarno racconto che l’affittacamere allarmato fa a Franz Overbeck, giunto trafelato a Torino l’8 gennaio, non appena informato dell’accaduto. Il 9 gennaio Nietzsche è già a Basilea, nella clinica per malattie mentali — è già uscito dalla storia per entrare nel mito.


Che l’ultimo gesto lucido e cosciente di Nietzsche sia stato la difesa di un animale maltrattato, è grandioso. Mi piace pensare che si sia trattato del materializzarsi di una comprensione folgorante — che il male permea questo mondo e abbraccia tutte le sue creature nella globalità di un dolore cosmico che è il destino dei viventi. In realtà, forse, non si è trattato d’altro che del frutto necessario di una vita nata in terra nord-europea, cresciuta nella religione protestante, presto illuminata dalle pagine di Schopenhauer e dal loro messaggio orientale, naturalmente ricca di una profonda e squisita sensibilità: tutte circostanze assai favorevoli a una benevola inclinazione verso ogni creatura vivente, nella consapevolezza di una sorte comune dettata dalla vita stessa.
Invece capita spesso di sentire l’opinione che proprio il fatto di via Po sia il segno per eccellenza della “pazzia” di Nietzsche — «poveretto, abbracciare un cavallo…». E, si badi, non lo dicono soltanto i molti che di Nietzsche hanno orecchiato soltanto qualche grossolana volgarizzazione del superuomo e del nichilismo: lo dicono anche alcuni che Nietzsche l’hanno davvero letto e studiato (compreso?). Chissà come, le poche ma attente puntualizzazioni di Nietzsche sulla natura e sugli animali sono state generalmente trascurate dai critici — almeno qui in Italia, dove tradizionalmente, a dispetto di san Francesco e nonostante lodevoli eccezioni, l’amore o anche il semplice, genuino interesse per animali e natura è sempre stato giudicato appannaggio dei poveri di spirito o (in tempi più recenti) strumento elettorale.
Ripercorrendo l’opera del filosofo, affiorano invece alcuni spunti significativi che voglio qui riproporre ai lettori, per riscoprire insieme uno degli aspetti più delicati dell’uomo che fu Zarathustra..

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venerdì 16 aprile 2010

Pd, l'inciucio colpisce ancora

Marco Travaglio
Il Fatto

Il Pd manifesta in piazza contro il decreto salva-liste, riesce a farlo cadere in Parlamento, ma poi fa marcia indietro. E vota una legge che lo ripesca con Pdl e Lega. L'opposizione che si oppone dura meno di 24 ore.

Siore e siori, sempre più difficile! Pur di non opporsi, l’opposizione all’italiana chiamata Pd s’è prodotta ieri in un triplo salto mortale carpiato con avvitamento e scappellamento a destra, un numero mai riuscito né provato prima d'ora. Ricordate il decreto salva-liste che sanava ex post le illegalità nella presentazione delle liste Pdl a Milano e Roma? Bene, era illegale, incostituzionale e inutile. Illegale perché una legge del 1988 vieta i decreti in materia elettorale (onde evitare il rischio che si voti con una regola e poi, se il decreto non viene convertito in legge, quella regola decada dopo il voto e si debba tornare alle urne). Incostituzionale perché sanava solo le irregolarità di alcune liste e non di altre e perché cambiava le regole del gioco a partita iniziata. Inutile perché modificava per via parlamentare una legge regionale. Incuranti di questi dettagliucci, i presidenti del Consiglio e della Repubblica lo firmarono a piè fermo.

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sabato 20 marzo 2010

Il cane che non si è perso una manifestazione in Grecia..





...da noi, invece, il governo continua con l'opera di risanamento del debito pubblico proponendo l'eliminazione del tetto agli stipendi dei manager.







link originale (e altre foto):
http://www.thisblogrules.com/2010/03/dog-that-hasnt-missed-a-single-riot-for-years.html

sabato 6 marzo 2010

L'uomo che firma


Il nostro Presidente, un uomo super partes.un garante per tutti.

Napolitano, nei libri di storia* sarai ricordato come colui che firmò il decreto interpretativo.

Un piccolo passo per il Presidente, un grande passo per l'Italia.

Niente sarà più come prima.
Ci avevi già provato a passare alla storia:con il lodo Alfano, o con lo scudo fiscale.
Firma,firma,firma, alla ricerca di un posto nella Storia.
Forse questa è la volta buona.


* siamo fiduciosi,salvo problemi economici che riducano uteriormente lo studio delle materie scolastiche inutili.

Parole sante 2

..questo è un paese democratico dove il telegiornale mente alla gente per compiacere il SuperPadrone, dove i programmi di informazione vengono cancellati per sicurezza, il figlio deficiente del ministro idiota viene fatto eleggere per farlo mantenere dallo Stato ladrone, il signore con la faccia da buono distribuiva appalti coi soldi dei terremotati in cambio di massaggi, i magistrati si accaniscono contro due realtà che creano lavoro solo perché riciclano denaro sporco ed evadono due miliardi e mezzo di euro, un senatore era un uomo della ‘ndrangheta, il piduista (piduista, PIDUISTA) Costanzo torna a piazzare le sue manucce sulla Rai, si organizzano pestaggi nelle scuole elementari di Genova e la polizia ammazza drogati o tifosi a caso.

Vogliamo rinunciare a tutta questa Libertà?


Paolo Madeddu da Macchianera

giovedì 18 febbraio 2010

Sonnambuli..

"L’inerzia della mente umana e la sua resistenza all’innovazione si dimostrano più chiaramente non, come si potrebbe pensare, nelle masse incolte, ma bensì nei professionisti coi loro interessi acquisiti per tradizione e per il monopolio del sapere. L’innovazione costituisce una duplice minaccia per le mediocrità accademiche: essa mette in pericolo la loro autorità di oracoli ed evoca il timore più profondo che tutto il loro edificio intellettuale, laboriosamente costruito, possa crollare."

(Artur Koestler, I Sonnambuli)

mercoledì 10 febbraio 2010

Parole sante

Oggi la gente comune perde, mentre la grande finanza guadagna ancora di più. Bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario.

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, 5 febbraio

Striscia Rossa dell'Unità on line del 10 febbraio

lunedì 8 febbraio 2010

Il principio di Peter

In una gerarchia ogni membro tende a raggiungere il proprio livello di incompetenza.

Corollari:

Col tempo, ogni posizione tende a essere occupata da un membro che è incompetente a svolgere quel lavoro.

Il lavoro viene svolto da quei membri che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza.

da http://simba.oasi.asti.it/Murphy/murphy06.htm
dove troverete raccolta una miniera di altre preziose considerazioni.

Buon lunedi a tutti

La Transizione possibile: a Fiesole si parte dai muretti

Ritorno alla saggezza antica, da Crisis

sabato 6 febbraio 2010

Se questo è un uomo

di Massimo Gramellini

fonte La Stampa

Ma come farà a essere israeliano con gli israeliani e palestinese coi palestinesi? Ad affermare, davanti a Netanyahu, che bombardare Gaza fu «una reazione giusta» e due ore dopo, davanti ad Abu Mazen, che le vittime di Gaza sono paragonabili a quelle della Shoah? Zelig si limitava a cambiare faccia, a seconda dell’interlocutore da compiacere. Ma questo è un uomo in grado di cancellare il tempo e lo spazio. Riesce a stare con il pilota dell’aereo che sgancia le bombe e nel rifugio sotterraneo con i bombardati. In contemporanea, e dispensando a entrambi parole di comprensione. Nella sua vita precedente insegnava ai venditori di pubblicità a essere concavi coi convessi e convessi coi concavi. Una volta li sfidò a salutare cinquanta clienti, trovando un complimento per tutti. Solo stringendo la mano al cinquantesimo, un uomo brutto e sgradevole, rimase perplesso. Poi gli disse: «Ma che bella stretta di mano ha lei!».

Molti hanno letto quei manuali americani che insegnano a infinocchiare il prossimo in 47 lezioni. Ma solo lui ha il fegato di applicarne il precetto fondamentale: credere sempre a quel che dici, anche quando è il contrario di quel che hai appena detto. Una tecnica che evidentemente funziona persino con le vecchie volpi mediorientali. Come farà? Vorrei tanto chiederglielo, se non fosse che lui nel frattempo si è già spostato nella basilica della Natività, a Betlemme, dove sta raccontando ai frati una barzelletta sulla Madonna che avrebbe preferito una femminuccia. A quel punto mi arrendo.

domenica 31 gennaio 2010

L'equivoco Holden

Tommaso Pincio
www.ilmanifesto.it

Tra le false notizie diffuse dopo la morte di Salinger c'è quella secondo cui Holden e i suoi personaggi sarebbero dei rivoluzionari. Non è così: la loro ossessione per l'inautenticità, la loro idiosincrasia per il fasullo non ha nulla di ribelle né di politico. E anche il paragone con Pynchon non tiene, perché dietro il velo della segregazione le due figure sono antitetiche

Nel precipitarsi a dare notizia della morte di Jerome D. Salinger, i giornali di tutto il mondo, per la fretta, hanno diffuso false informazioni. Hanno detto, per esempio, che Salinger è nato un certo giorno a New York ed è morto ieri l'altro in una località del New Hampshire.

Inesatto. Ma bisogna capirli: è quello che c'è scritto su Wikipedia. Avessero avuto agio di riflettere, sarebbero giunti alla conclusione evidente che Salinger è preliminarmente scomparso il 19 giugno 1965 sul «New Yorker», in attesa della definitiva sparizione compiutasi il 28 gennaio 2010 a Cornish, la località del New Hampshire di cui sopra. Certo, i giornali non hanno mancato di notare che lo scrittore aveva smesso di pubblicare e conduceva da mezzo secolo un'esistenza da recluso, minacciando col fucile chiunque si avvicinasse alla propria casa con l'intenzione di fotografarlo o peggio ancora di intervistarlo. Nel farlo, hanno però citato l'altro grande della letteratura statunitense del secolo scorso, dimostrando di avere compreso pochissimo o nulla del suo eremitaggio. Ma pure in questo bisogna capirli: l'accostamento di Salinger a Pynchon è un vecchio ritornello, un'altra delle false informazioni che è possibile leggere su Wikipedia. Ai tempi, qualcuno azzardò perfino che i due fossero la stessa persona, rimediando una laconica smentita di dubbia autenticità da parte di uno dei diretti interessati.

Due diverse invisibilità

Dietro il velo della segregazione volontaria si nascondono due figure agli antipodi, antitetiche quasi. L'uomo Pynchon ha sempre disertato la scena pubblica ma non ha mai smesso di scrivere. Per Salinger, l'allontanamento dai riflettori è stato invece l'atto terminale o comunque una tappa centrale di un percorso, dopodiché ha smesso di scrivere. Naturalmente sarebbe più corretto dire «pubblicare», ma non cavilliamo: nei fatti e probabilmente anche nelle intenzioni ha smesso di scrivere. L'invisibilità di cui Pynchon si ammanta non costituisce il prodromo di un mutismo letterario. Al contrario, ne amplifica la voce, contribuisce a prestare attenzione unicamente a ciò egli ha da dire. E che Pynchon non voglia tacere lo dimostra il fatto di essersi mostrato in pubblico in forma di voce: prima nelle vesti di cartone animato in una puntata dei Simpsons, poi in quelle di narratore nel trailer che ha accompagnato il lancio del recente Inherent vice.

L'invisibilità salingeriana è invece tutta volta al mutismo. Al centro della scomparsa dello scrittore non c'è tanto l'annichilamento fisico dell'uomo quanto la negazione stessa del principio primo della scrittura, la parola. Salinger appartiene alla ristretta famiglia di autori più o meno misticheggianti, più o meno pervasi da una malinconica quanto tragica comicità da circo, che vede nel mutismo, nella cessazione di qualunque forma di linguaggio, la sola strada possibile per rappresentare l'inautenticità dell'esperienza e della coscienza. In questo, è assai vicino a un filone centrale della letteratura europea, che vede in Beckett e Kafka i suoi capisaldi. Più che a Pynchon, la sparizione di Salinger è assimilabile alle disposizioni - per nostra fortuna tradite - che Kafka lasciò all'amico Max Brod: bruciare tutto quel che aveva scritto.

Pynchon è inoltre costituzionalmente un rivoluzionario, un anarchico, un portavoce della controcultura, un irriducibile hippy e - diciamolo - anche uno sporcaccione, un gaudente che non disegna né il sesso né le sostanze psicotrope. Ma tutto ciò non fa di lui un antiamericano. È anzi più realista del re, americano fino al midollo cioè, appartiene a quel tipo di ribelli che prendono alla lettera le verità per sé stesse evidenti annunciate nella Dichiarazione d'indipendenza, in seguito date in pasto alla nazione con l'accezione intramontabile di Sogno Americano. Salinger non soltanto non crede in quel sogno, lo avversa alla radice. È antiamericano non tanto perché vede nel competitivo e materialistico egocentrismo della società moderna americana un tradimento di valori fondanti, ma semplicemente perché considera falsi sia i valori fondanti che la loro moderna degenerazione.

I personaggi di Salinger se ne fregano di ciò che è giusto, dell'uguaglianza dei diritti, della libertà individuale, di quel certo tipo di ricerca della felicità. Se ne fregano perché sono ossessionati o per meglio dire oppressi da quel che di falso c'è in quei presunti valori; non per nulla la parola di cui adorano riempirsi la bocca è phoney, fasullo. Vedere nella loro idiosincrasia per la falsità un vocazione ribelle, per non dire politica, sarebbe un abbaglio. Salinger di persona si è scomodato più volte per rivendicare la visione politicamente agnostica delle sue creature. Coloro i quali si ostinano a pensare a lui come un contestatore dovrebbero domandarsi come simili interpretazioni della sua opera si concilino con il fatto di essere stato registrato ai seggi in qualità di repubblicano. A suo favore alcuni ricordano la lettera che inviò al «New York Post» per dichiararsi contrario all'ergastolo. Colpisce, però, che l'unico intervento pubblico su problemi sociali riguardi la reclusione. Guarda caso, proprio lui si oppone all'ergastolo, uno che si è recluso a vita.

E giungiamo così all'altra immensa falsità profusa a piene mani in questi giorni dai media: la falsità in base alla quale con The catcher in the rye Salinger avrebbe fissato il prototipo del ragazzo ribelle. Premesso che a un simile intento e con esiti alquanto soddisfacenti ci si era dedicato un certo Mark Twain un secolo prima, dipingere il giovane Holden alla stregua di un anticonformista è quantomeno un ritratto improprio. Nei fatti, quel breve romanzo che a tutt'oggi ha venduto nei soli Stati Uniti sessanta milioni di copie e ha aperto la mente all'assassino di John Lennon, è un libro borghese che ha dato voce al disagio dei privilegiati, di quei teenager che negli anni Cinquanta passavano dal dileggiare i professori dei loro college al trangugiare frappé giganti nei drive in. Una ribellione dal cuore tenero che rappresentava l'alternativa liceale al giubbotto di pelle del teppista Marlon Brando.

Come scrisse a suo tempo Leslie Fiedler, i giovani scontenti di Salinger non sono omosessuali, drogati o delinquenti, sono ragazzi perbene che «percorrono una strada delimitata da un lato dalla scuola, dall'altro dalle loro case». Nelle pagine finali, il giovane Holden dà la misura della sua presunta ribellione nonché di ciò verso cui il suo creatore tendeva già in quel romanzo d'esordio.

«Quello che dovevo fare, pensai, era far finta d'essere sordomuto. Così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote e senza sugo. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po' ne avrebbero avuto piene le tasche, e per il resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero pensato che ero un povero bastardo d'un sordomuto e mi avrebbero lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario eccetera eccetera, e con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non proprio nei boschi, perché volevo starmene in pieno sole tutto il tempo. Mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato quella bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella mia capanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutti gli altri».

La rivolta era tutta interiore

Non sembra forse il film della vita di Jerome D. Salinger a partire del 1953, quando abbandonò il suo appartamento sulla 57ma strada a Manhattan, e con esso l'intera scena letteraria, per ritirarsi in una casa tra le colline di Cornish, in novanta, invalicabili acri di terreno circondati dai boschi? Tanto il desiderio di essere «lasciato in pace» quanto la regressione al silenzio covavano in Salinger fin dagli inizi. Il giovane Holden è compreso in una rivolta tutta interiore. È un sommovimento dell'anima, il suo, scatenato da ombre private quali la prematura morte per leucemia del fratellino, che incombe come un fantasma lungo tutto il libro. Questo sommovimento lo rende, oltre che mentalmente instabile, inadatto ad interagire con il prossimo, incapace di integrarsi in una società che detesta. Non gli resta che l'isolamento, preludio all'eremitaggio mistico, alla religione del silenzio.

Nel giovane Holden si avverte già la chiamata dal profondo che salterà poi evidente nelle successive creature di Salinger; segnatamente i membri della famiglia Glass. Un nucleo compatto di personaggi la cui coltre di tenerezza nasconde il lato duro, algido, non di rado anche crudele, che muove spesso autoesiliati e santoni. Un po' monaci autarchici, un po' squilibrati e depressi, questi personaggi si inseriscono in un filone particolare della letteratura americana, che va dallo scrivano di Melville ai contabili dell'ultimo, incompiuto romanzo di David Foster Wallace; un filone nel quale la parola evapora nell'esoterico, in quella verità assoluta che non ha altre modalità espressive se non il silenzio, il diniego sordo e irremovibile. Il «preferirei di no» di Bartleby è stretto parente del «lasciatemi in pace» di Holden Caufield.

Il destino di Seymour è lo stesso che Wallace ha decretato per sé, così come la partecipazione dei piccoli geni Glass al quiz radiofonico anticipa le apparizioni televisive di alcuni personaggi dell'autore di Infinite Jest nonché la maledizione del talento. Sarebbe stato più corretto dire che Jerome D. Salinger non è morto il 28 gennaio 2010 bensì che è preliminarmente scomparso il 19 giugno 1965, perché quel giorno pubblicò per l'ultima volta un suo racconto scritto, Hapworth 16, 1924. Dopo quel giorno si dedicò, indefesso, alla sua opera più importante: il silenzio. E non la si deve intendere in senso lato o come un'iperbole a effetto. Salinger considerava la sua esistenza alla stregua di un'opera d'arte. Le religioni orientali, i Veda, il buddismo zen, ma anche certo misticismo cattolico gli hanno porto la chiave per il retto vivere e il retto esprimersi che egli risolutamente cercava. Ma non è tutta luce ciò che luccica, giacché, lo si è detto, c'era una parte di crudeltà. Molti pensano che Salinger vada identificato in Buddy Glass, e lo pensano perché è stato egli stesso a dichiararlo. Ma l'esperienza insegna che gli scrittori tendono a confondere le acque su certi argomenti ed è perciò altrove che si deve cercare il suo vero volto, vale a dire nel fratello suicida di Buddy, Seymour Glass, e nel «complesso di perfezione» che uno psicoanalista gli diagnostica. Buona parte del segreto di Salinger è tutto lì: nell'incapacità di tollerare il più piccolo neo.

Cosa lo abbia reso così è un problema personale che riguarda soltanto Salinger e chi gli è vissuto vicino, vedi sua figlia Margaret, che qualche anno fa licenziò alle stampe un controverso libro di memorie. A noi, invece, non resta che seguitare a godere di quelle poche pagine che ci sono state concesse, tenendo però a mente che a dodici anni Seymour ferì seriamente una ragazza lanciandole un sasso solo «perché era talmente bella».

Tommaso Pincio dal Manifesto.it