mercoledì 22 aprile 2009

Vera arte (di regime)




(dal Corriere.it)
SAVONA - Una ritrae, quasi senza veli, il premier Silvio Berlusconi e il ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna. L'altra ha come soggetto la moglie del presidente del Consiglio, Veronica Lario, a seno nudo e con due ali d'angelo: sono le due opere dell'artista palermitano Filippo Panseca, che hanno suscitato non poche polemiche a Savona, dove sono state esposte in nell'ambito della mostra «Art & Savonnerie», inaugurata al Priamar.



SCENOGRAFO CRAXIANO - A Savona cinque artisti interpretano il sapone attraverso l'arte, in occasione dei 125 anni del marchio l'Amande della Gavarry di Albisola Superiore, uno dei più antichi saponifici del mondo.


Come riporta il Secolo XIX, le opere di Panseca fanno parte di questa esposizione. «Autore delle opere è Filippo Panseca, l'architetto e artista palermitano diventato famoso negli anni Ottanta per le sfarzose scenografie dei congressi del Partito Socialista. Suo è anche il logo del garofano», sottolinea il giornale, secondo cui a Savona «molti gridano già allo scandalo». «Ho voluto rendere omaggio al presidente del Consiglio - sottolinea Panseca, secondo quanto riferisce il quotidiano -. Per l'opera sono partito da una foto che avevo visto su Internet. Il corpo della Carfagna è preso in prestito da un artista dell'Ottocento».

martedì 14 aprile 2009

L'allarme alla città andava dato

di MASSIMO GALLUCCI*
da Repubblica

"Da gennaio, quasi settimanalmente si faceva sentire. Ma, un po' come nel film X-men 2, il verme divoratore era sotto controllo. Così ci era stato detto più e più volte dalla stampa e dalle televisioni locali. E così parcheggio, senza particolari precauzioni, nel piazzale alberato a 100 metri da casa. Casa: una palazzina cielo-terra di 3 piani e piccolo attico, di stesura settecentesca, manipolata più volte in seguito, e da noi restaurata 12 anni fa.

Per strada, davanti il mio ingresso, gli studenti che alloggiano in affitto negli appartamenti di fronte in cemento armato. Sono una decina, in strada. Una ragazza piange: "non ne posso più, ho paura voglio andare via". Un ragazzo l'abbraccia protettivo. Stai tranquilla. Sono scosse di assestamento. Ormai ci siamo abituati. Così ci prepariamo, come ogni sera quasi tranquilli. A letto. Io, mia moglie e mia figlia. Un letto d'epoca, veneziano, con una spalliera piuttosto alta, che avrà un ruolo in questa storia. Stranamente essenziale e per questo bellissimo. Lascio la luce dell'abat-jour accesa. All'una circa sono svegliato da un'altra scossa. O l'ho sognata? Resto sveglio. Dopo un po' ne arriva un'altra. Alle 3 e mezzo il letto salta, si muove. Non c'è più luce elettrica, polvere dovunque, si fa fatica a respirare tra la polvere e l'odore acre, inconfondibile del gas di città, e il ballo continua, accelera, è forsennato, sale il rumore, quel borborigmo che diventa un ululato rotto dagli allarmi delle auto e da grida, grida, grida attorno. Virginia chiama. Mi butto su di lei per ripararla dalla pioggia di calcinacci e urlo: "Non preoccuparti, è finito, è finito!" Ripeto istericamente quella frase per 22 secondi. E' finito! Grido finalmente per l'ultima volta e "ordino" a mia moglie e mia figlia di seguirmi, di scappare via, subito. Scendo dal letto. Macerie sul pavimento. Polvere e odore di gas. Urla da fuori. Non si vede nulla. Cerco a tentoni la porta, ma non riconosco la camera da letto: la stanza è cambiata. O almeno il letto è in un'altra posizione. La trovo. Si apre. A tentoni raggiungo la rampa delle scale con la sensazione di non trovare le pareti al posto giusto. La rampa non c'è: è un cumulo di macerie.

A piedi nudi su quei sassi, poi sui vetri e i resti dei quadri dell'ingresso. Voglio vedere se si apre la porta. Sembra di no, poi qualche spallata e ci riesco e un po' di luce delle stelle penetra la nebbia e lenisce l'angoscia. Grazie a Dio non siamo prigionieri. Corro di nuovo su. Prendo Virginia e chiamo Lucilla. E approccio di nuovo la discesa. Ma stavolta perdo l'equilibrio e cado di schiena, assieme a Virginia, violentemente sul pavimento dell'ingresso. Un bel volo, forse di un metro e mezzo - due? Per un paio di secondi ho fosfeni. "Virginia, Lucilla, uscite! Uscite, sto bene!" Intanto verifico che muovo le gambe e le mani. Ho un dolore terribile nell'intero tratto lombare. Sicuramente mi sono fratturato. Mi faccio forza ed esco quasi carponi, poi mi metto in piedi e vedo l'orrore che mai avrei creduto o pensato. Il palazzo di fronte: 5 piani di cemento armato accartocciati, stratificati come carte da gioco. Non sarà più alto di 3-4 metri, ora. Non viene una voce da lì dentro. Un silenzio feroce. Mani nei capelli, piango, Daniela amica cara e i bimbi Davide e Matteo; Maria Pia e i figli e quell'anomalo pitbull buono, l'avvocato Fioravanti e la moglie, così dolci e pacati. Che gentiluomo, con la sua piccola collezione di auto d'epoca e il sorriso nonostante la leucemia, e gli altri e gli studenti, quelli che piangevano e si consolavano.Travi di cemento armato di vari metri schiacciano i resti di quella casa. Senza una gru è impossibile fare qualunque cosa. A piedi nudi, sui sassi della città atterrati per terra, come tre zombi facciamo i 50 metri che ci separano da via XX Settembre dove altri zombi seminudi si aggirano senza meta, con gli occhi sbarrati, senza saper dire una parola, guardandosi attorno e piangendo, alcuni.

Attraversiamo il parco alberato nel cui piazzale ho parcheggiato e raggiungiamo la macchina. E' coperta di detriti e polvere, ma agibile. Con lucidità sia io che Lucilla avevamo preso le chiavi della macchina dal portaoggetti sul tavolo dell'ingresso fortunatamente in piedi. In auto passiamo qualche ora, mentre la folla aumenta nel piazzale, assieme al dolore lombare. Continuano le scosse. Sento un ragazzo chiamare Maria, Mariaaaa da sopra le macerie: "c'è mia sorella lì sotto, Mariaaaa!" Alcuni hanno piccole torce elettriche e scavano con le mani. Il termometro della mia auto indica 3 gradi. Chiedo a mia figlia di avvolgermi una pezza da vetri attorno ai piedi congelati. Passano amici e volti noti. Non vedo traccia di isteria. Uno stupore silenzioso e controllato. Tutti si chiedono tra le lacrime: ha bisogno di qualcosa? Sapendo di aver poco o nulla da offrire. Aspettiamo, come bombardati, le luci dell'alba. Per capire. Ma da capire c'è poco.

Mia moglie torna a casa. Entra per qualche secondo. "Casa non c'è più. Abbiamo perso tutto. Sai a chi dobbiamo la vita? Alla spalliera del letto che ci ha riparato dai massi della casa a fianco, accasciata come un vecchio sulla nostra. I massi hanno forzato, curvato su di noi la spalliera spingendo il letto contro l'altra parete. Senza di essa, ci sarebbero venuti addosso, sulle teste". Deo gratias. Una serie di coincidenze ci ha salvato la vita. Il resto non conta. Il resto si rifarà. Sono indeciso ora. Andiamo in ospedale a L'Aquila, dove troverò certamente il caos dei feriti ammassati, o direttamente fuori. Ma chissà cosa ha combinato il terremoto da quelle parti? Chissà le strade? Pensieri contorti che trovano soluzione presto: "Portami in ospedale a L'Aquila. Sto per svenire dal dolore". Sono quasi le otto. Passiamo per una circonvallazione fuori città evitando scientemente il centro con l'auto, e ai nostri occhi si offre anche qui lo scenario di guerra che immaginavamo. Arriviamo e troviamo un'apocalisse ben oltre le previsioni: l'accesso al pronto soccorso bloccato da un crollo e il magnifico costosissimo-ma-solido ospedale è provato, inginocchiato, macilento. Dico a mia moglie di andare direttamente nel mio reparto. Inutile intasare il Pronto Soccorso. E qui trovo gente che dalle 4 del mattino lavora indefessa e già sconvolta dai primi orrori. Riesco a essere studiato. Sento l'affetto di chi mi sta intorno. Sono su una barella, finalmente, con un toradol in vena, e il dolore si lenisce. Ho eseguito RM e TC mentre le scosse continuavano impetuose ed impietose. Ho una diagnosi di frattura vertebrale somatica di L2 e varie contusioni. Non ho notizie di mia madre, mio fratello, mia sorella, i nipoti: non ho potuto prendere il cellulare, sepolto dentro casa. Quanto siamo stati viziati dalla tecnologia! Col mio cellulare ho perso la rubrica telefonica e quindi tutti i contatti col mondo. In tarda mattinata l'ospedale è dichiarato inagibile ed evacuato. Mi cerco un ricovero altrove con la difficoltà di non conoscere più i numeri di telefono di nessuno e approdo in qualche ora al Policlinico Umberto I a Roma.

E' già tempo di leccarsi le ferite e proporre rapide soluzioni. E' vero. E' anche vero che se il dolore non deve alimentare né rendere faziosa la rabbia, non deve neanche occultare le legittime domande del caso. Non ho velleità polemiche, e la gratitudine a tutti coloro che si sono adoperati per la mia città è infinita. Non posso, nel nome di quei morti, tacere, però, in merito alla disorganizzazione preventiva e all'informazione fuorviante. Da quasi 4 mesi erano state registrate quasi 200 scosse con epicentro a L'Aquila e dintorni. Non poteva essere un evento che rientra nei limiti del normale, come si è sentito dire. Nelle ultime settimane erano incrementate di numero ed intensità. Eppure le voci ufficiali erano rassicuranti. "Non creiamo allarmismi". Ma perché essere preoccupati di dare un allarme consapevole? Noi medici siamo obbligati da anni al consenso informato. Quando io intervengo su un aneurisma cerebrale sono COSTRETTO giustamente a dire e quantificare il rischio percentuale di mortalità. E i Pazienti lo accettano. Non fanno gesti inconsulti.

Questo è il mio principale rammarico. Nessuno ha offerto istruzioni calme, rassicuranti, civili, informate. La mia piccola storia assieme alle centinaia di storie di amici, mi ha insegnato che se avessi avuto una torcia elettrica sul comodino non mi sarei fratturato la colonna vertebrale, se avessi avuto un cellulare a portata di mano avrei chiesto aiuto per me e per il palazzo accanto, se molti avessero parcheggiato almeno un'auto fuori dal garage ora l'avrebbero a disposizione, se in quell'auto avessero (e io avessi) messo una borsa con una tuta, uno spazzolino da denti e una bottiglia d'acqua, si sarebbero tollerati meglio i disagi. Se si fosse tenuta una bottiglia d'acqua sul comodino, se si fosse evitato di chiudere a chiave i portoni di casa, se si fosse detto di studiare una strategia di fuga.... Pensate a chi è rimasto incarcerato per ore senza poter comunicare con l'esterno perché aveva il cellulare in un'altra stanza, o perché non trovava al buio le chiavi di casa, come le ragazze di un palazzo a fianco a me già semi sventrato: 6 ore sotto un letto, con la terra che continuava a tremare, perché la porta era chiusa a chiave, senza una torcia elettrica e senza cellulare per chiedere aiuto! E inoltre, se invece di una decina di vigili del fuoco in servizio ci fosse stata una maggiore disponibilità di forze con mezzi già sul posto, piuttosto che aspettarli da altrove, quegli eroi del quotidiano che sono i nostri vigili del fuoco e i volontari della Protezione Civile avrebbero potuto lavorare in condizioni migliori. Piccole cose. A costo irrisorio. Spero che i nostri figli possano fare affidamento su una società più civile".

* L'autore è professore e direttore Uoc di Neuroradiologia Università-Asl dell'Aquila
articolo originale http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/sisma-aquila-5/sisma-lettera/sisma-lettera.html

domenica 12 aprile 2009

Il blog di Anna dall'Aquila

Il Blog di Anna alias Miss Kappa, dolcissima agguerrita e coraggiosa aquilana.

sabato 11 aprile 2009

L'Aquila non c'è più

dal Giornalismo partecipativo
http://www.gennarocarotenuto.it/7001-scrive-anna-laquila-non-c-pi/#more-7001

Ci sarà mai giustizia per i passeggeri della Moby Prince?

10 aprile 1991.Il traghetto passeggeri Moby Prince diretto a Olbia dal porto di Livorno si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo appena fuori dal porto. Perdono la vita 140 passeggeri. Dopo quasi vent'anni le cause della collisione, e il ritardo nei soccorsi non hanno trovato una spiegazione soddisfacente.
I familiari delle vittime hanno costituito l'associazione 10 aprile , e chiedono da quasi vent' anni verità e giustizia.
Per approfondire, e testimoniare solidarietà http://www.mobyprince.it/

mercoledì 8 aprile 2009

Economia sostenibile e design

Una bella riflessione di Gianluca Bifolchi dal suo blog

martedì 7 aprile 2009

Il bombardamento de L'Aquila

M. Bucciantini e R. Rossi
Unità

Il bombardamento dell’Aquila è stato preparato con cura da Madre Natura. Con duecento colpi di cannone, da dicembre fino all’affondo mortale, domenica notte, alle 3 e 32 e per venticinque secondi: 6.3 gradi della scala Ricther (8/9 di quella Mercalli). Imprevedibile, si dice dei terremoti. Tragedie troppo enormi sulle nostre coscienze per lasciare anche colpevoli. Spesso le frasi fatte sono un rifugio, un alibi: qualcuno l’aveva detto, e non era solo il sismologo che girava con il suo megafono, inascoltato e deriso. Madre Natura aveva sussurrato piano e urlato forte: duecento scosse in tre mesi e mezzo, dunque. In questi paesi non si parlava d’altro.

Le locandine sopravvissute - quelle dei giornali in edicola domenica – scrivono le preoccupazioni per il brontolare perpetuo della terra. Duecento scosse e nemmeno un breve servizio nei telegiornali nazionali. I grandi media hanno ignorato questo pezzo d’Italia silenzioso, questo popolo oscuro e colpevole di saper soffrire più di quanto merita.Una settimana di allarmiI ragazzi avevano telefonato otto giorni fa, spaventati dall’aria che tremava. Erano in 140 nella casa dello studente e dopo quell’avvertimento - «si sentivano scricchiolare i muri» - più della metà aveva deciso di rientrare dai genitori, anticipando le vacanze pasquali. Chi era rimasto, aveva preso un’agghiacciante abitudine: «Ci incontravamo in piazza del Duomo, senza darci appuntamento: ogni scossa, fuggivamo dalle stanze per trovarci là». Giulia Yakihchuk, «ucraina ormai abruzzese», racconta le sere in piazza a far passare la paura. Telefonando ai vigili del fuoco, cercando informazioni e qualcuno che spiegasse quest’inverno inquieto. «Non ci hanno mai risposto». Esperti, ragazzi, Madre Natura, giornali locali: ecco chi aveva avvisato. Poi la terra è diventata infame e feroce, 150 morti per adesso - chissà quanti altri – e i feriti dieci volte tanto, e 100 mila sfollati. «La più grande tragedia di questo millennio», fa Bertolaso, ancora una volta l’uomo dell’emergenza.

In questo rimediare, si può essere fieri: lo spendersi di forze dell’ordine, volontari, gente comune è enorme e commovente. L’Italia che reagisce è sempre alta, nobile, «concorde» come la vuole oggi Berlusconi. PolemichePoi, quando le strade saranno lavate, si dovranno ascoltare i pompieri come Sante, in servizio da diciotto anni, venuto con la squadra di Roma: «Ma che cemento è? Che cemento di merda è?» e indica le crepe sulle fiancate della Casa dello studente. Il luogo simbolico della tragedia, del paese che divora i suoi figli. La provincia dell’Aquila è classificata al massimo grado di allerta per il pericolo sismico. E si raggiunge da poche e non semplici strade. Montagne e valli da presenziare costantemente. Invece tocca raccattare bare e tende e per metà giornata i morti restano stesi in fila nel campo della disgraziata Onna. Ma adesso tocca a loro, a Maurizio, un quarantenne veneto di Valdobbiadene. Lavora con gli elicotteri del 118. Un alpinista scavato in viso. Sta salendo verso piazza Duomo. Alle otto di mattina ha già tirato fuori cinque persone dalla macerie. Tutte vive tranne l’ultima: una bambina di 10 anni. «Per quattro ore ho scavato a mani nude - dice - tra le i detriti di un palazzo in via XX settembre». Ne sono crollati tre. «I vigili del fuoco sono arrivati dopo un ora e mezza. Erano in quattro, non avevano un piccone, una scala, luci di emergenza. Non erano preparati».

Nonostante le continue denunce. Annarita Tartaglia, insegnante, aveva scritto pochi giorni fa: «Il Convitto nazionale di corso Principe Umberto non è sicuro. L’avevo fatto presente al comune». La struttura adesso è sventrata. Alcuni studenti sono riusciti a uscire in tempo. Altri sono rimasti feriti senza che nessuno li soccorresse. Sono arrivati prima alcuni genitori da Pescara che le ambulanze dall’ospedale. Forse perché anche quello non c’è più. Era stato costruito nel 2002. Con quanto e quale cemento lo stabilirà la magistratura: si è sgretolato come fosse sabbia. Come l’Hotel Duca d’Abruzzo, poco distante dal centro. Si è accartocciato su se stesso. Come i paesi intorno alla città. Da lontano l’Aquila sembra una città in guerra, fumante e colpita al cuore, vinta, i muri bacati, e poi sventrati su su fino alla cupola abbattuta della vecchia chiesa. Le strade segnate: I volti persi di chi lotta a mani nude contro le bombe: «Sto scavando, sotto c’è mia madre». E sopra di lei almeno dieci metri di detriti. Sulla casa dei ragazzi ci sono gli occhi fissi di Luigi Alfonsi, 23 anni, che guarda quel cemento “armato” , e lo guarda ancora, crepato, “disarmato”, e quei fili di ferro piegati come fossero giunchi, e promette, lui che studia Ingegneria civile, che è ancora vivo e ha gli occhi piccoli e verdi arrossiti dalla polvere e bruciati dal pianto: «Una casa così non la farò mai, credetemi». Dobbiamo crederci.

http://www.unita.it/news/83760/il_bombardamento_de_laquila

Il made in Italy della terra

di Carlo Petrini
Repubblica

L'ITALIA agricola è un "Paese per vecchi". Abbiamo un contadino giovane, sotto i 35 anni, ogni 12,5 agricoltori con più di 65 anni. Niente di paragonabile a Francia e Germania dove lo stesso rapporto scende rispettivamente a 1,5 e 0,8. Verrebbe quasi spontaneo lanciare un appello ai giovani: "Uscite dai call center, andate nei campi!". Fatevi il favore di un lavoro meno precario, più creativo, più gratificante, dove siete i padroni di voi stessi, per ritrovare un sano rapporto con il mondo. Bisognerebbe pensare e parlare non solo di crisi dell'agricoltura, ma di agricoltura come una delle possibili vie d'uscita dalla crisi. La formula purtroppo però non è così scontata, perché evidentemente in Italia tornare alla terra o continuare il lavoro di padri agricoltori non è facile: il Paese, preso dall'ansia di rilanciare i consumi, l'industria e l'edilizia, un'opzione del genere neanche se la immagina. O se la immagina male.

I commenti di alcuni politici, in questo periodo, ricordano la vecchia pubblicità di un'azienda di pennelli. L'ingenuo manovale diceva: "Per dipingere una parete grande ci vuole un pennello grande" e quasi stramazzava sotto il peso di un arnese così gigantesco da non essere funzionale. È la logica che guida quanti oggi si precipitano a spiegare che la crisi è "globale" e tali devono essere le soluzioni: grande scala, impatto internazionale, industria, potenziamento dell'export... Al contrario, si arriva addirittura a dileggiare le soluzioni che individuano percorsi locali, cicli brevi, potenziamento delle filiere corte, delle reti e delle economie locali: soluzioni leggere, rapide, partecipate ed immediatamente efficaci. In questo modo ci si dimentica che le nostre campagne si stanno spopolando come non mai e nemmeno si aiutano i giovani con i giusti incentivi o lo snellimento di pratiche burocratiche sempre più vessatorie.

L'agricoltura in Italia determina la formazione del 15% del Pil relativo all'agroalimentare, dà lavoro al 4% della popolazione occupata. Gli addetti sono in costante calo: 901mila nel 2008, 924mila del 2007 e 982mila nel 2006. I giovani sono il 2,9% del totale, anche qui, di lunga molti meno che in Francia e Germania (7,5% circa in entrambi i Paesi).

Sono dati che dovrebbero calamitare l'attenzione non solo di chi governa, ma in generale di chi vuole comprendere e analizzare le pieghe dell'attuale crisi e, allontanandosi dagli slogan, provare a capire come sta funzionando il Paese in questo periodo, come si stanno comportando le persone, le aziende, i consumi, le vite reali. Invece un malinteso senso della modernità e del business porta ormai molti politici ad allontanarsi sempre più dalla considerazione dei territori e delle loro peculiarità ed esigenze, per riferirsi esclusivamente ai mercati per lo meno nazionali, ma preferibilmente internazionali. Il che significa filiere lunghissime, trasporti, monocolture, grande distribuzione, necessità di input chimici per le coltivazioni, apertura agli Ogm. Significa, sostanzialmente, ulteriore industrializzazione del modello agricolo: grandi quantità, uniformità, concentrazione e priorità alle esigenze di chi vende piuttosto che a quelle di chi coltiva e consuma. La parola magica è "competitività", e quindi "export", ovviamente riferito al "made in Italy". Propongo di guardarlo in faccia il "made in Italy" del cibo, e di guardargli anche le mani, le scarpe, le rughe, le aziende.

Guardiamo anche gli estimatori del made in Italy. Non ci sono solo quelli che lo apprezzano da casa, acquistando i prodotti italiani o che presumono essere tali. Ci sono anche, e sono tanti, quelli che vengono in Italia non per ammirare le autostrade, le ferrovie, i porti grazie ai quali esportiamo il made in Italy, ma per sentirsi accolti da una cultura legata a prodotti, sapienze e gesti che hanno dato vita a paesaggi, comunità e solide economie. Vengono per stupirsi, ogni volta, della straordinaria varietà che il nostro mondo rurale e gastronomico può offrire. Possibile che tutto questo non conti niente? Possibile che tra i tanti incentivi e appoggi finanziari, o per lo meno facilitazioni, non ce ne possano essere anche per chi è attirato da questo mestiere, certo faticosissimo, ma di grande futuro? Invece no, si dice che il settore non è competitivo, che le nostre aziende, sempre più vecchie, sono troppo frammentate, che ci vorrebbe maggiore concentrazione: più agricoltura industriale di grande scala, meno persone nelle campagne. E poi si porta ad esempio, per esaltare il made in Italy, il settore del vino. Ma è proprio sulla frammentazione, sulla diversità dei territori e di tante piccole aziende creative e innovative, tutte concentrate sulla più alta qualità, che il vino italiano ha costruito i suoi successi.

La stessa cosa dovrebbe avvenire, essere promossa e finanziata, per tutti gli altri settori agricoli, per tutte le produzioni che possono fare della diversità e del radicamento sul territorio il loro punto di forza: ciò che non a caso ha reso fino ad oggi grande la nostra agricoltura e la nostra gastronomia, ciò che ha generato quell'appeal che si chiama anche "made in Italy". Non è solo sulle esportazioni che bisogna puntare: è sulla capacità dei nostri territori rurali di essere al servizio del Paese, a condizione che anche il Paese si metta al loro servizio. Disoccupazione? Il Ministro dell'agricoltura giapponese ha finanziato per 800 persone che hanno perso il lavoro uno stage di 10 giorni per imparare a produrre e vendere ortaggi e frutta. Dopo il corso formativo i disoccupati lavoreranno per un anno in villaggi agricoli. Dall'altra parte del Pacifico, il dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti ha annunciato l'apertura di circa 300mila nuove aziende agricole negli ultimi anni. Una tendenza favorita dal programma per l'agricoltura definito dal nuovo presidente degli Stati Uniti: incoraggiare tramite detassazioni e finanziamenti agevolati i giovani a diventare agricoltori, incentivare l'agricoltura locale, sostenibile e biologica, promuovere le energie rinnovabili, assicurare la copertura della banda larga nelle aree rurali, migliorare le infrastrutture nelle campagne ed estendere l'obbligo di indicare l'origine degli alimenti in etichetta per consentire di distinguere il proprio prodotto da quello importato.

Noi invece vogliamo più cemento, più villette, più aziende agricole concentrate nelle mani di imprenditori sempre più vecchi, che rifiutano addirittura di farsi chiamare "contadini" e che diventano campioni di un sempre più anonimo export. Se dal 4% di occupati in agricoltura si provasse a passare anche solo al 5% o al 6%, come cambierebbe questo paese? Perché nessuno scommette sul settore, perché non si potenziano i mille rivoli di economia e produzione virtuosa che l'agricoltura di piccola e media scala consente?

L'agricoltura italiana di qualità non può, non deve e soprattutto non vuole diventare "un paese per vecchi": occorre dare valore all'entusiasmo che oggi tanti giovani potrebbero mostrare per l'attività, considerando seriamente il comparto come uno dei più sani e potenti mezzi per reagire alla crisi. Anche così il made in Italy eviterà di diventare un'etichetta inutile e vuota, e sarà sempre meno facile imitarlo.

link originale http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/economia/tesoro-nei-campi/tesoro-nei-campi/tesoro-nei-campi.html