martedì 9 aprile 2013

Intervista con Vittorio Sermonti


di Antonio Gnoli 
Non ha una faccia né una voce qualsiasi Vittorio Sermonti. Entrambe, in fondo, ci hanno fatto conoscere meglio Dante e poi Virgilio. Mi verrebbe voglia di ringraziarlo a nome di tutte quelle persone che sono state incuriosite, scosse e attratte dalle sue memorabili letture pubbliche. Ha una mente ospitale, Sermonti. Ci si può accomodare nei suoi ragionamenti sentendosi accuditi.
Risiede, insieme alla moglie Ludovica, in una comoda casa della collina Fleming. È un quartiere romano che conosco poco. Abitato da gente agiata. So che ci vive Zdenek Zeman. E chiedo a Sermonti, che sul calcio italiano ha scritto un delizioso ed eruditissimo libro occasionato dalla vittoria dell´Italia ai mondiali del 1982, se conosce il "Mister" o dovrei dire l´ex, vista la fine ingloriosa del boemo.
Mi guarda sconcertato. E dice di non saperne nulla. Poi, quasi a voler mitigare la mia delusione, sorride e aggiunge che è molto amico di Dino Zoff, che abita non lontano. Mi incuriosisce il "molto". E penso a quel leggendario portiere così avaro di parole (quanto Zeman del resto) e mi chiedo di che cosa discetteranno: di Dante? Della Juventus di cui Sermonti è un appassionato tifoso? Chissà. E a proposito del "molto" aggiunge che ci sono amicizie su cui pesa la dolcezza del conformismo. Ma che non tutte sono uguali.
Ce n´è una che ricorda in modo particolare?Quale?
«Ce ne sarebbero diverse. Quella con Cesare Garboli, con il quale non mancarono momenti di tensione. Ci conoscemmo a casa di Niccolò Gallo, dove spesso si ritrovavano Pasolini, Parise, Dessì, Delfini. Cesare aveva una teatralità innata. A volte sembrava Gassman. Decidemmo, a un certo punto, di dare l´esame scritto di latino con Ettore Paratore. Si profilò una specie di incubo. Preparando l´esame, capitava che andassi a casa di Cesare. Studiammo benissimo. Lui era fortissimo in greco, io un po´ meno. Le ore trascorse ci mettevano appetito e una volta accadde un fatto particolare».
«Si viveva nell´alone del dopoguerra. C´era ancora lo spettro della fame. E a un certo punto Cesare tirò fuori, dalla madia, una rosetta di pane. Durissima. La bagnò e l´aprì a metà. Poi la pose sul gas a scaldare. Ma il fornello si spense. Alla fine mangiammo pane e gas».
E l´esame?
«Fummo in pochi a passarlo. Poi mi trasferii a studiare a Firenze, e qui qualche anno dopo cominciai a frequentare Roberto Longhi e a lavorare come redattore per la rivista Paragone. Ricordo interminabili partite a bocce nella sua villa e conversazioni dove parlava solo lui, con la sigaretta accesa, permanentemente incollata su di un lato della bocca. Era geniale, un difetto che hanno in pochi».
Di quali anni parliamo?

«Credo fosse il 1954. Avevo lasciato da poco la Rai, dove ero stato assunto nel 1950 come giovanissimo funzionario al Terzo programma radiofonico. C´era gente interessante allora. Mi capitò di intrattenere rapporti di scontrosa familiarità con personaggi anche notevoli, come per esempio Gadda».
L´aneddotica su di lui è vasta.
«È vero, potrei dirle che c´erano certi giorni in cui si trascinava nei corridoi tirandomi per la giacca e dicendo cose irripetibili su alcuni suoi colleghi. Ma al di là di ciò dava l'impressione di essere un uomo misterioso, che arrivava da un buio antico, da un dolore indicibile che ha prodotto uno stile ecumenico. Senza ombra di dubbio è stato il più grande scrittore italiano del ´900».
Come argomenterebbe questa affermazione?
«Sentì più di ogni altro la carenza di vocalità dell´italiano. Avendo l´italiano poca voce, necessita del supporto del canto o del dialetto. Ma Gadda non era uno scrittore dialettale. Inventò una lingua vocale che si appoggiava ai dialetti. Si comportò come Dante con la Commedia. Che dopo aver detto che tutti i dialetti fanno schifo, che non ce ne è uno che valga "la pantera profumata del volgare illustre", scrive utilizzando di tutto: desinenze, calate, strutture sintattiche delle parlate che conosceva e perfino di quelle che gli erano ignote».

A lei come è accaduto di occuparsi di Dante, nel modo particolare in cui l´ha fatto?
«Guardi, ci sono due persone alle quali sono riconoscente. Una è mia moglie che è qui con me e l´altra è Gianfranco Contini che avevo conosciuto un pomeriggio in casa Longhi. Vidi quest´uomo molto compito, che giocava malissimo alle bocce, e che mi mise una certa soggezione. Mi capitò in seguito di leggere un suo saggio dedicato a Dante: semplicemente strepitoso. E quando nel 1986 decisi di realizzare il mio progetto dantesco andai a trovarlo».
Dove vi vedeste?
«A casa sua a Firenze. Gli esposi l´idea e in pratica gli chiesi di mettermi una mano sulla testa e benedirmi. Mi guardò e poi disse: "mi foni", intendeva: mi legga qualcosa di Dante. Aprii il quinto canto dell´Inferno e incominciai. Dopo un po´ mi interruppe: l´ha solfeggiato benissimo, ora lo legga. A quel punto mi sentii completamente libero. Conclusi la lettura con grande soddisfazione di entrambi. Le volte che andai a casa sua lavoravamo in cucina. Correggeva con estrema parsimonia alcuni dettagli di stile. Fu un uomo generoso, dotato di una immensa cultura e di una lingua straordinaria».
Un po´ come quella di Longhi.
«Decisamente. E mi viene da pensare che le grandi pagine di critica, ma soprattutto di poesia e di letteratura, sono un insieme di parole che non si possono scastrare. Non posso dire: Sesamo, fammi la cortesia, apriti. Perché non si aprirà mai».
Le piacciono gli scrittori italiani?


«Ho avuto rapporti ottimi con grandi lettori, con i dantisti, con i musicisti e con la gente comune. Meno con gli scrittori, una categoria che mi annoia terribilmente».
A parte Gadda?
«A parte lui, ho ammirato il rigore di Calvino e la moralità di Pasolini. Il quale scrisse cose notevolissime, ma non certo nei suoi romanzi. Fu un impasto singolare di contraddizioni: un narciso terribile, affetto da masochismo eroico, ma anche dotato di un coraggio morale raro in Italia. Però non mi era simpatico, come non lo ero io a lui. Mi considerava un borghese. Con l´aggravante di aver sposato in prime nozze una figlia di Susanna Agnelli».
Quali sono le sue origini?
«Mio padre era un avvocato. Credo che abbia avuto un peso nella mia vita perché mi leggeva Dante quando avevo dieci anni. Il mio padrino di nascita era stato Vittorio Emanuele Orlando. Mio nonno, anche lui avvocato, fu il primo nel processo Notarbartolo a Palermo a pronunciare la parola "mafia". Tanto è vero che la famiglia fu costretta a trasferirsi a Roma. Consuocero di mio nonno era Beneduce. E delle volte che capitavamo a casa sua, ricordo delle partite di poker alle quali, in un paio di occasioni, partecipò Enrico Cuccia, genero di Beneduce».
A Cuccia piaceva il poker?
«Non lo so. Già allora era abbastanza enigmatico. Credo che lo facesse per far piacere a sua suocera. Ma non era molto divertente giocare con la moglie di Beneduce perché considerava il bluff un imbroglio».
In fondo la sua storia è quella di un giovane privilegiato.
«Mi mantengo dall´età di 19 anni. Da ragazzo ho sperato nella musica. Ho cominciato a suonare il pianoforte a 16 anni ma non avevo talento. O non abbastanza. Ho fatto altro. Riuscendo anche molto bene: ho tradotto, ho commentato, ho scritto libri. Racconti, romanzi, libretti. Ho amato la poesia, la musicalità che essa esprime. Quando voglio parlare bene di essa dico che è il contrario della pornografia».
L'opposto dell´osceno?


«La pornografia stabilisce un rapporto di desiderio tra un puro soggetto e un puro oggetto. Il mio desiderio che si accende in me per un iPad, una velina, una Smart è il desiderio per qualcosa che non mi desidera. Invece la circolarità del desiderio è la proprietà del linguaggio poetico che si svolge in falde della persona anche molto segrete. Questa distinzione mi consente di definire che cosa sia per me la volgarità».
Viviamo tempi molto volgari?
«Spudoratamente volgari. Senza vergogna alcuna. Ma ogni generazione ha le sue plebi. Imbecilli ci sono sempre stati, dappertutto, tra i vecchi e tra i giovani».
Internet è un fattore di crescita?
«Siamo dentro una grande rivoluzione culturale, non c´è dubbio. Ma quelle che adoperiamo sono tecnologie belliche che non potendo essere utilizzate in una guerra globale, vengono rivolte contro noi stessi. Creano desideri indotti che diventano bisogni. Sospetto che dopo l´ennesima e sofisticata realizzazione algoritmica, torneranno i dinosauri. Mi creda, la globalizzazione mondiale sta creando suscettibilità molto provinciali».
Come definirebbe il desiderio?
«La realizzazione di un Io che non conosce l´Io. Insomma sguazziamo nell´Inconscio».
Aver desiderato da giovane di essere un pianista e non esserci riuscito cosa le ha provocato?
«L´idea di non poter essere stato un altro non mi turba. Anzi mi crea dei ricordi dell´inesistito che mi sono particolarmente cari, essendo io una persona che aspira ad essere un altro».


Un altro? Cosa direbbe sua moglie?
«Credo che approverebbe. Siamo insieme da trent´anni e il nostro rapporto è stato di gratitudine e ammirazione reciproca. Vede, non viviamo in una casa straordinaria. Però il sole sorge in quella direzione della finestra dove siamo in questo momento. E si vedono cose incredibili: strappi neri, argento, una luce che improvvisamente diventa arancione e poi sbianca.
E quando ci sono le nuvole sembrano fantastiche e meglio dipinte che dal Tiepolo. Ancora ci meravigliamo. Mi capita a volte di riflettere su quel detto di Heidegger: "Denken ist danken", pensare è ringraziare. È così. Tra di noi ci ringraziamo. Qualche volta litighiamo, ma io so che, grazie a lei, andrò verso la morte senza spavento. Mi scoccia un po´ il morire, ma non provo angoscia. Nella mia vita ho perso anche una figlia e questo ha creato un rapporto più soffice con il dopo».
In che senso?
«Meno estraneo. Sto raccogliendo da una quindicina di anni una serie di aforismi che ruotano attorno all´idea che la morte non esiste. Sostengo che questa signora che viene quando vuole e ti sorprende in realtà non c´è. Ci sono le persone che a un certo punto se ne vanno e con le quali non hai più rapporti: vengono sfilate, creano una ferita, ma poi la ferita si rimargina. La morte non esiste, esistono i morti e a un certo punto mi viene il sospetto che praticamente non esistano che loro».