giovedì 23 giugno 2011

Qualcosa si muove

di Giorgio Cremaschi

Liberazione.

Perché i lavoratori, i cittadini, il popolo greco dovrebbero impiccarsi alla corda degli strozzini di tutta Europa? Perché la Grecia dovrebbe rinunciare a stato sociale, diritti, regole, sicurezza; vendere all’incanto i propri beni comuni, a partire proprio dall’acqua, per far quadrare i conti delle grandi banche europee e americane? Questa è la domanda di fondo che si pone oggi in quel paese e, a breve, in tutta Europa. Si dice che i debiti devono essere sempre pagati, e così quello pubblico della Grecia. Tuttavia quando due anni e mezzo fa le principali banche occidentali rischiavano il fallimento, i governi stanziarono da 3.000 a 5.000 miliardi di euro, secondo le diverse stime, per salvare le banche private ed i loro profitti. Oggi si nega alla Grecia da un trentesimo a un cinquantesimo di quella cifra, se non vende tutto,comprese le sue belle isole come sostengono alcuni quotidiani economici tedeschi.

I banchieri e i grandi manager occidentali hanno visto, grazie al colossale intervento pubblico, aumentare del 36% in un anno i propri già lauti guadagni, mentre il reddito medio dei lavoratori greci è calato del 25%. Questa è la realtà su cui sproloquiano gli innamorati dell’Europa delle banche e del rigore. Quei falsi profeti che con l’euro sono riusciti nella magica operazione di svalutare tutte le retribuzioni dei lavoratori europei e di rivalutare tutti i profitti dei loro padroni.

Sì, certo, nelle buone intenzioni l’euro doveva servire ad unificare l’Europa. Nella pratica concreta dei patti di stabilità, di Maastricht, delle politiche liberiste dei governi – di tutti i governi di destra e di sinistra – ha però in realtà distrutto l’unità sociale e persino quella democratica del Continente.

Oggi i governi eletti dai cittadini non decidono nulla sull’economia. Sono i tiranni di Francoforte e di Bruxelles che decretano quello che si deve o non si deve fare. Questo è a tal punto vero che il Belgio sta sperimentando l’assenza di un governo democratico da quasi due anni. Ormai quel paese è direttamente amministrato dai commessi, dai funzionari, dai manager dei poteri europei.

Abbiamo già scritto che questa Europa fa schifo. Essa è in grado di fare la guerra in Libia, e su questo ha solo torto il Presidente della Repubblica a voler andare avanti, ma non di varare una politica sociale comune, né per i migranti né per i suoi più antichi cittadini. La più importante conquista civile e democratica dopo la sconfitta del fascismo, il patrimonio che l’Europa oggi potrebbe consegnare all’umanità – lo stato sociale, i diritti di cittadinanza, la partecipazione democratica – viene sacrificato sull’altare delle banche e della finanza.

Questa Europa va rovesciata. Non in nome delle piccole patrie razziste e xenofobe, delle ridicole padanie capaci solo di rivendicare targhette per i ministeri e spietatezza con i poveri, soprattutto se vengono da fuori. L’Italia ha cominciato a liberarsi di Berlusconi e di Bossi, ed è forse più avanti nel capire che non è il populismo razzista l’alternativa al potere liberista europeo, anzi, è semplicemente la faccia più sporca di quella stessa medaglia. L’Italia ha cominciato a liberarsi, ma questa liberazione sarà vera quando verrà rovesciato il potere degli usurai che in tutta Europa stanno imponendo il massacro sociale, con il ricatto del mercato selvaggio e della globalizzazione.

Occorre una rivoluzione democratica e sociale dei popoli europei che rovesci l’Europa delle banche, della finanza, dei ricchi. Bisogna non pagare questo debito e far invece cadere, finalmente, i costi della crisi su chi l’ha provocata. Il piccolo popolo islandese ha già votato in un referendum il mandato ai propri governi di non pagare il debito per salvare la speculazione mondiale. Questo chiedono gli indignados spagnoli, così come i cittadini greci davanti al loro parlamento totalmente esautorato di ogni reale potere. Dalla Grecia, che ha inventato la parola democrazia, deve partire la riscossa democratica di tutti i popoli d’Europa.


Fonte: Liberazione (22 giugno 2011).


DEMOCRAZIA CONTRO MITOLOGIA: LA BATTAGLIA IN PIAZZA SYNTAGMA

STURDYBLOG

Non sono mai stato tanto determinato e speranzoso di cercare di far comprendere un fatto: che le proteste in Grecia vi riguardano tutti da vicino.

Quello che sta accadendo in questo momento ad Atene è la resistenza contro un’invasione, un’invasione brutale quanto quella subita dalla Polonia nel 1939. L’esercito degli invasori indossa completi di sartoria invece delle uniformi e porta con sé computer portatili invece delle pistole, ma non ci sbagliamo: l’attacco alla nostra sovranità è altrettanto violento e meticoloso. Gli interessi dei capitali privati stanno dettando la politica di una nazione sovrana, in modo smaccato e contrario ai nostri interessi nazionali. Ignoratelo a vostro rischio e pericolo. Dite a voi stessi, se si va, che forse la cosa si fermerà qui. Che forse gli ufficiali giudiziari non andranno oltre il Portogallo e l’Irlanda. E poi Spagna e Regno Unito. Ma la cosa è già in movimento. Questa è la ragione per cui non vi potere permettere di ignorare questi eventi.

I potenti hanno suggerito che ci sono un sacco di cose da vendere. Josef Schlarmann, un membro di lunga data del partito di Angela Merkel, ci ha di recente suggerito che sarebbe il caso di vendere alcune delle nostre isole ai compratori privati per riuscire a pagare gli interessi dei nostri prestiti, che ci sono stati imposti per stabilizzare le istituzioni finanziarie e un esperimento monetario destinato al fallimento. (Naturalmente, non è una coincidenza che le ultime ricerche hanno scoperto immense riserve di gas naturale nel Mar Egeo).

La Cina ci si sta buttando a capofitto perché ha enormi riserve di moneta e più di un terzo di queste sono in Euro. I siti di interesse storico come l’Acropoli potrebbero passare ai privati. E se non facciamo come ci è stato detto e come risulta dalle palesi minacce, ci penseranno i politici stranieri più responsabili a farlo con la forza. Del Partenone e dell’antica Agorà facciamone un parco Disney, dove gli indigeni mal pagati si vestiranno da Platone o da Socrate e faranno sbizzarrire le fantasie dei ricchi.

È di vitale importanza far capire che io non voglio scusare i miei connazionali per le loro responsabilità. Ne abbiamo fatte di cose sbagliate. Ho lasciato la Grecia nel 1991 e ci sono ritornato fino al 2006. Nei primi mesi mi guardavo intorno e vedevo un paese completamente diverso da quello che mi ero lasciato alle spalle. Tutti i pannelli per le affissioni, le fermate degli autobus, le pagine di tutte le riviste pubblicizzavano prestiti a bassi interessi. Era una distribuzione di soldi gratuita. Hai un prestito che non riesci a sostenere? Vieni e prendine uno più grande e ti daremo un buono per una lap dance in omaggio. E i nomi scritti in fondo a questi annunci non erano proprio sconosciuti: HSBC, Citibank, Credit Agricole, Eurobank, eccetera.

Mi dispiace ammettere che abbiamo proprio abboccato. La psiche greca ha sempre avuto un tallone d’Achille, una crisi d’identità sempre latente. Siamo all'incrocio di tre continenti e la nostra cultura, proprio per questo motivo, è sempre stata un crogiolo. Invece di apprezzare questa ricchezza, abbiamo deciso di essere solo Europei, Capitalisti, Moderni, Occidentali. E, dannazione, dovevamo esserne assolutamente capaci. Saremmo diventati i più Europei, i più Capitalisti, i più Moderni, i più Occidentali. Eravamo degli adolescenti con la prestigiosa carta di credito dei propri genitori.

Non riuscivo a vedere un paio di occhiali da sole senza il marchio di Diesel o di Prada. Non c'era un paio di infradito senza il logo di Versace o di D&G. Le auto che mi circondavano erano quasi tutte Mercedes e BMW. Se qualcuno decideva di andare in vacanza in un posto più vicino della Thailandia, cercava di mantenere il segreto. C’era una spaventosa mancanza di senso comune e neppure la minima percezione che questo flusso di ricchezza non fosse inesauribile. Siamo diventati una nazione sonnambula che si avvicinava al precipizio buio della nostra piscina, costruita da poco con le sue belle piapiastrelle italiane, senza preoccuparsi che a un certo punto le nostre dita non sarebbero riuscite a toccarne il fondo.

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lunedì 20 giugno 2011

Il potere del popolo

Erica Chenoweth


SOJURNERS magazine

Il 25 gennaio 2011, sono scoppiate dimostrazioni di massa in Egitto, al grido di: “Ne abbiamo abbastanza!” e “Svegliatevi, svegliati, figlio del mio paese. Venite Egiziani!” Sebbene ci fossero violenti giri di vite alle manifestazioni, da parte del governo egiziano la maggioranza schiacciante dell’attivismo protestatorio era non violento. Diciotto giorni dopo, il presidente Mubarak, un dittatore che era stato al potere per 30 anni, si è dimesso.

In dieci giorni del XXI secolo, rivoluzioni riuscite in nome del “potere del popolo” in Tunisia, Egitto, Libano, Georgia, Ucraina, Nepal e le Maldive hanno costretto a importanti cambiamenti i poteri radicati puntando sulla resistenza “civile”, un metodo di resistenza nel quale i civili ritirano la loro collaborazione ai regimi oppressivi, spesso usando varie azioni: scioperi, boicottaggi, sit-in, assenze dal lavoro, e altri atti di disobbedienza civile.

La resistenza civile non è sempre uguale alla “non violenza” – una pratica che spesso evoca immagini di Gandhi come suo principale sostenitore. Il metodo scelto da Gandhi di usare la resistenza di civile di massa per opporsi al dominio britannico nel subcontinente asiatico meridionale aveva una forte dimensione morale – è una avversione di principio verso l’uso della violenza. La storia della resistenza civile, però, rivela che molta gente ha contato sulla resistenza civile non per ragioni morali, ma perché pensavano che sarebbe stata un’alternativa efficace alla violenza per raggiungere i loro scopi.

Per scoprire se la resistenza civile è generalmente un’opzione più efficace rispetto alla resistenza violenta, tra il 2006 e il 2008 ho raccolto dati da libri, enciclopedie, notiziari, archivi, insiemi di dati e riviste accademiche Per costituire un nuovo base di dati delle campagne di resistenza di massa non violenta che comportavano richieste di cambiamento di regime o di indipendenza territoriale. Ho guardato dove e quando nascevano queste campagne, alle caratteristiche dei personaggi a cui si opponevano e se esse avevano esito positivo o fallivano. Ho poi paragonato questi risultati con i dati sui tassi di successo delle proteste violente.

I risultati sono stati sorprendenti. Su 323 importanti insurrezioni e movimenti di massa non violenti che si sono verificati dal 1900 al 2006, le campagne non violente erano state due volte più efficaci rispetto alle insurrezioni violente, con esito positivo il 55% delle volte. In effetti, le azioni di massa non violente che hanno avuto esito positivo, si sono verificate in nazioni molto diverse tra loro come: Serbia, Polonia, Madagascar, Sud Africa, Cile, Venezuela, Georgia, Ucraina, Libano e Nepal.

In che modo le rivoluzioni non violente guidate da civili fanno crollare alcune delle più repressive dittature del nostro tempo? Primo: la campagne non violente normalmente richiamano un numero molto maggiore di partecipanti rispetto alle campagne violente. In media, le campagne non violente hanno più del quadruplo di partecipanti attivi (circa 200.000) della media delle campagne violente (50.000). Questo accade perché le campagne non violente si rivolgono a un settore più ampio della società rispetto alle campagne violente. Le tattiche usate: scioperi, boicottaggi, e scioperi bianchi sono alla portata di settori trasversali della società: giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri e persone con diverse ideologie politiche e religiose. Ci sono minori barriere morali per la partecipazione a proteste e dimostrazioni che insistono su metodi pacifici (quantunque forti). Inoltre, la partecipazione alla resistenza civile non richiede che una persona si dia alla clandestinità o che sacrifichi la propria vita quotidiana. Anche se spesso sia ad alto rischio, la partecipazione alla resistenza civile può essere più spontanea e anonima a causa del numero di persone che vi sono coinvolte. D’altra parte, le campagne violente generalmente richiedono forza fisica, resistenza e agilità, la volontà di sacrificare la propria vita quotidiana e la volontà di voler rimuovere ogni riluttanza a cambiare vita per la causa – tutte restrizioni che escludono una vasta parte di qualsiasi popolazione.

Secondo, quando moltissime persone si mobilitano pacificamente contro regimi repressivi, spesso neutralizzano importanti fonti di potere: i burocrati statali, le élite economiche, e anche le forze di sicurezza.

Per esempio, il 5 giugno 1989, una mezza dozzina di carri armati avanzavano verso la Piazza Tiananmen a Pechino per continuare un giro di vite durato vari giorni nei riguardi di migliaia di dimostranti che chiedevano riforme politiche ed economiche nel regime autoritario del paese. Mentre si avvicinavano a Tienanmen, uno sconosciuto, da solo, si mise sul percorso dei carri armati, con una busta di plastica in mano. Quando fu chiaro che l’uomo non aveva intenzione di spostarsi, il carro armato in testa si fermò sobbalzando proprio a pochi metri dall’uomo. Dopo una pausa, il mezzo si buttò sulla destra per superare l’uomo che invece saltò a sinistra bloccandogli il passaggio. Anche il carro armato che veniva dietro, si fermò, e, per pochi momenti, l’uomo e il carro armato rimasero fermi sulla strada, uno di fronte all’altro, in un’immagine che era un’icona della resistenza civile. Prima che si ponesse fine all’atto di non cooperazione dell’ “Uomo del carro armato” la sua risolutezza sconcertò i soldati in un modi che gli insorti armati non riescono a fare.

Le campagne di resistenza non violenta sono particolarmente adatte a convincere le forze di sicurezza di smettere la repressione e, in alcuni casi, a unirsi alla resistenza. Poiché la resistenza civile generalmente comprende una più vasta base di partecipanti che rappresentano un campione più vario della società, le forze di sicurezza spesso si identificano con i partecipanti alla campagna, per mezzo di legami etnici, religiosi, di classe, culturali o perfino famigliari. Le defezioni delle forze di polizia si sono verificate nel 54% di campagne non violente che hanno avuto esito positivo.

Le campagne violente non hanno un buon nel convincere le forze di sicurezza a disertare. La ragione è abbastanza intuitiva. Quando le forze di sicurezza percepiscono una minaccia fisica, tendono a unirsi per difendersi. Immaginate che l’Uomo del Carro armato si fosse preso un’arma dalla busta che aveva in mano e avesse sparato sui carri armati quando cominciavano a muoversi attorno a lui. L’immagine dell’Uomo del carro armato non avrebbe più rappresentato la legittimità e il coraggio della causa pro-democrazia in Cina. Avrebbe, invece, affrontato i soldati secondo il suo punti di vista e usando un metodo che dà ai militari un chiaro vantaggio. Sarebbe stato soltanto un altro ribelle anonimo che affrontava la violenza con la violenza.

La capacità di creare divisioni all’interno del regime, dipende da un’attenta pianificazione, organizzazione, addestramento e unità all’interno dell’opposizione. Ma una volta che le forze di sicurezza si rifiutano di reprimere i dimostranti pacifici, i regimi tendono ad accogliere le richieste dei dimostranti. Notate che questo accade non a causa della superiorità morale della resistenza non violenta. Il motivo per cui il potere della gente funziona non è quello per cui “i bravi ragazzi” vincono sempre. Le campagne di resistenza civile ben programmate riescono a usare a loro vantaggio la larga partecipazione che hanno, per far crollare il regime con modi che non hanno a disposizione, invece, dimostrazioni con minore partecipazione e che sono più violente.

La solita domanda che spesso ci si pone è: la resistenza civile può avere successo anche contro oppositori brutali? E i Nazisti? Ci sono numerosi esempi di resistenza non violenta contro i brutali metodi usati nel genocidio dal regime nazista durante la Seconda guerra mondiale. Uno di questi è la protesta che c’è stata a Berlino, in Rosenstrasse, nel marzo del 1943. In seguito alla sconfitta militare di Hitler nella battaglia di Stalingrado, i Nazisti hanno accelerato la “soluzione finale”, l’affrettando la deportazione e l’uccisione di milioni di ebrei, zingari, prigionieri di guerra ed altri. A Berlino, le truppe paramilitari SS hanno trattenuto circa 2.000 uomini ebrei che prima erano stati risparmiati perché le loro mogli erano tedesche non ebree. Queste donne hanno cominciato a radunarsi fuori dall’edificio di Rosenstrasse dove gli uomini erano rinchiusi. Giorno e notte, le donne hanno occupato le strade scandendo le parole: ”Ridateci i nostri mariti.” Alla fine, centinaia, se non migliaia di persone si sono unite alla protesta, perfino quando le SS di guardia hanno installato le mitragliatrici e hanno minacciato di fare fuoco sui dimostranti. La protesta è durata una settimana e alla fine di questa le SS hanno rilasciato gli uomini. Quasi tutti sono riusciti a sopravvivere alla guerra.

Questo evento straordinario dimostra il potere dell’azione organizzata, non violenta e diretta, anche contro le dittature più brutali. Una semplice iscrizione sul monumento commemorativo denominato “Block der Frauen ( “Blocco delle donne”) testimonia il fatto: “La forza della disobbedienza civile, il vigore dell’amore, supera la violenza della dittatura. Ridateci i nostri uomini. Le donne stavano in piedi qui, per sconfiggere la morte. Gli uomini ebrei furono liberati.” *

E, di fatto, la tendenza generale suggerisce che perfino nelle situazioni un cui i regimi usavano la violenza per schiacciare le campagne di resistenza, il 46% delle campagne non violente hanno prevalso, mentre soltanto il 20% delle campagne violente ce l’ha fatta contro questi stati violentemente repressivi.

I dati ci dicono che delle cose che prima non sapevamo. Primo, c’è poca verità nell’affermazione che gli insorti devono usare la violenza per ottenere ciò che vogliono. Molti osservatori sostengono che la gente ricorre alla violenza quando è costretta a farlo - da circostanze di eccessiva repressione, da ingiustizie che non riescono più a sopportare - e dopo aver esaurito tutti gli altri mezzi di influenza politica.

Si sente molto spesso questa affermazione da parte di insorti, studiosi, e sapientoni che sostengono che i rivoltosi Sunniti in Iraq, i Mujahdeen afgani e perfino il Fronte per la Liberazione Nazionale Farabundo Marti in El Salvador hanno dovuto scegliere la violenza per le loro lotte, perché era l’unico modo che avessero per riuscire. Lo stesso Gandhi – la quintessenza del pacifismo – una volta ha detto che “E’ meglio essere violenti se c’è violenza nei nostri cuori, piuttosto che rivestirsi dei un manto di non violenza per nascondere la propria impotenza.” Al contrario di queste ipotesi, la resistenza non violenta si è dimostrata essere un modo molto più potente di realizzare gli scopo politici, anche in ambienti dove vige una repressione brutale.

Secondo, una resistenza civile non violenta può creare divisioni e può far cadere i regimi quando le forze di sicurezza si stancano di reprimere i propri connazionali disarmati. Più è varia la campagna di protesta, è maggiore è la probabilità che produca defezioni tra le forze di sicurezza. Qualsiasi campagna troppo omogenea (che, per esempio, che dipenda da una forte componente religiosa senza però un motivo più ampi di attrazione) avrà difficoltà di riuscita perché non attirerà una porzione abbastanza vasta di persone che fornisca svariati punti di accesso ai potenziali alleati all’interno del regime. Per esempio, una rivoluzione cittadina spesso otterrà scarso appoggio dai funzionari di regime che sono originari della campagna.

Terza cosa, che è forse la più sorprendente, l’appoggio materiale da parte di stati stranieri, ha poco effetto sul successo delle campagne non violente. Soltanto il 10% di queste campagne ha ricevuto appoggio materiale diretto da parte di governi stranieri, e in quei casi, può aver prodotto disunione all’interno della campagna o può aver indebolito la legittimità del movimento agli occhi di potenziali sostenitori della base. Come ha detto di recente Richard K. Betts, esperto di sicurezza nazionale, replicando a una domanda sui modi che le istituzioni statunitensi preposte alla sicurezza avrebbero dovuto reagire alle proteste in Egitto: “Le rivoluzioni popolari possono essere contenute o incanalate efficacemente dalle forze straniere.” L’appoggio morale, però, e anche dare un nome e esporre alla vergogna gli abusi di un regime oppressivo, tagliare gli aiuti finanziari o militari al regime e fare dichiarazioni diplomatiche in appoggio al movimento – possono incoraggiare i partecipanti a mantenere l’entusiasmo e l’impegno.

In generale, i dati forniscono la prova concreta che la resistenza non violenta non è affatto passiva o debole. Gandhi aveva ragione quando diceva: “La non violenza è l’arma dei forti.” Guardando lo svolgersi degli avvenimenti nel mondo arabo e altrove, dovremmo tenere a mente che i richiami a usare la violenza per opporsi ai regimi repressivi non sono quasi mai giustificate dalla necessità. Applicazioni sapienti del “potere del popolo” sono state le forze più robuste e affidabili per ottenere cambiamenti nel mondo fin dalla II Guerra mondiale e questo orientamento è probabile che continui a lungo anche nel XXI secolo.

Erica Chenoweth è assistente universitaria di Scienze politiche alla Università Wesleyan e coautrice con Maria J. Stephan del libro di prossima pubblicazione: Why Civil Resistance works: Tha Strategic Logic of Nonviolent Conflict (Perché la resistenza civile funziona: la logica strategica del conflitto non violento.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza vive

Traduzione di Maria Chiara Starace

Orig. (ita) http://znetitaly.altervista.org/traduz3/chenoweth-poterepo.html
Orig. (eng) http://www.zcommunications.org/people-power-by-erica-chenoweth