domenica 24 ottobre 2010

La verità sull’11 Settembre era solo un pesce d’aprile fuori stagione: tappata a tempo di record in Germania la falla nel muro dell’omertà mediatica

Roberto Quaglia

Era un pesce d’Aprile e ci siamo cascati, ingannati probabilmente dal fatto che adesso è ottobre, cronologicamente agli antipodi di Aprile.

Avevamo riportato, pochi giorni fa, dell’incredibile fatto che la grande stampa si fosse finalmente occupata (in Germania) dei retroscena dell’ 11 settembre trattandoli per quelli che sono: una colossale truffa nei confronti del mondo intero! Si trattava di una piccola breccia nel muro dell’omertà mediatica con cui i giornalisti contemporanei nascondono, a quella parte fiduciosa della popolazione che vuole continuare a credere a ciò che fidati giornali e telegiornali raccontano loro, gli straordinari progressi dell’investigazione popolare sui fatti dell’11 settembre.

Nell’arco di dieci mesi il coraggioso giornalista tedesco Oliver Janich ha pubblicato non uno, ma ben due ampi articoli sulla importante rivista economica Focus Money, letta da centinaia di migliaia di persone. Articoli elaborati e ben argomentati, dritti al nocciolo delle cose, senza omissioni ed inganni. Avevamo ipotizzato che questo potesse essere il preludio al crollo della diga con la quale si cerca disperatamente di arginare l’afflusso della verità sul tema verso le popolazioni dell’Occidente democratico. Avevamo preconizzato uno tsunami di purissima merda il giorno che la diga fallata avesse ceduto.

Tutto sbagliato.

La falla nella diga è stata riparata a tempo di record dagli esperti ingegneri tappabuchi tedeschi della divisione “Orwell”.

L’articolo è stato infatti rimosso dalla versione online del giornale, al giornalista Janich è stato intimato di rimuovere la copia in PDF ospitata sul suo sito, ed il giornalista Janich stesso è stato epurato. Non lavorerà mai più per Focus Money. Né per le altre importanti testate con le quali aveva già collaborato, quali l’edizione tedesca del Financial Times, la Süddeutsche Zeitung ed altre.

“Nei miei confronti è già iniziata l’opera di character assassination.”Der Spiegel” ha immediatamente lanciato un attacco ad personam contro il giornalista. Ricordiamo che Der Spiegel, che adesso cerca di coprire i veri autori dell’11 settembre, in un passato affatto lontano analogamente si distinse per negare la diretta responsabilità nazista nel rogo del Reichstag nel 1933, l’evento che segnò l’affermazione finale del nazismo. Ha dichiarato Janich. La distruzione dell’immagine dei personaggi scomodi è ormai una prassi molto consueta, nell’Occidente democratico. “

Ovviamente, tutti si guardano bene dall’entrare nel merito dei fatti riportati da Janich nei suoi coraggiosi articoli. Nessuno prova a smontarne gli argomenti. Ci si limita a cercare di nascondere i cocci sotto il tappeto, sperando che la gente si dimentichi di quanto ha letto. Anche il caporedattore di Focus Money, che ha approvato gli articoli, è stato ora messo sotto pressione.

Tutto ciò sia istruttivo per chi, per inerzia, sentimentalismo o pigrizia, ancora si ostina a conservare fede nelle proprie testate giornalistiche preferite.

Una delle obiezioni che negli anni mi sono sentito rivolgere più spesso riguardo al mio libro sull’11 settembre, è stata quella che se l’11 settembre ci fosse stato un complotto governativo di tale portata, non si sarebbe riusciti a tenere le cose nascoste, qualcuno avrebbe parlato, i giornalisti avrebbero indagato. Umberto Eco stesso ha pubblicamente sostenuto questo argomento.

Adesso abbiamo l’irrefutabile dimostrazione empirica del perché questo argomento sia sbagliato.

In verità, sono stati moltissimi quelli hanno parlato, quelli che hanno fatto trapelare notizie segrete, in verità non si è riuscito a tenere le cose nascoste, in verità tutto ciò che era nascosto è in effetti saltato fuori nel tempo. Però, coloro che noi abbiamo delegato ad informarci rispetto a tutto ciò, ovvero i giornalisti, semplicemente… non ce lo hanno mai detto! Non ce lo hanno mai detto!

Ed ora abbiamo sotto gli occhi anche la prova sperimentale, la certezza empirica del perché non ce lo hanno detto!

Se un giornalista della grande stampa compie correttamente il proprio lavoro a questo proposito, perde immediatamente ogni possibilità futura di lavorare, i suoi articoli già scritti vengono cancellati, rimossi, nascosti, viene declassato per sempre al rango di innominabile paria. Oliver Janich non è il primo a subire questa sorte. Volete la lista intera?

Questo spiega perfettamente come mai il vostro quotidiano o telegiornale preferito non vi parlerà mai dei retroscena ormai assodati in merito ai fatti dell’11 settembre, e quando lo facesse, sarebbe solo per sviarvi, per vaccinarvi contro ulteriori curiosità. Se ancora è sopravvissuto nel vostro cuore un giornale o un telegiornale preferito, investite qualche minuto del vostro prezioso tempo a riflettere sul caso emblematico di Oliver Janich. Se la fede nel vostro giornale o TG sopravvive anche a queste riflessioni, guardatevi allo specchio. Negli occhi. A lungo. Chissà che non aiuti.

Mi era giunta voce che io fossi invitato a presentare il mio libro Il Mito dell’11 Settembre alla Fiera del Libro che si svolgerà a Trieste ad inizio novembre. Poi l’invito sarebbe decaduto. Per “motivi politici”. Chissà perché, la cosa non mi ha sorpreso affatto.

La mole di evidenza che dimostra la totale insensatezza della narrazione ufficiale dei fatti dell’11 settembre è tale, e continuamente cresce e si perfeziona e si consolida, che chi cerca di tenere la cosa nascosta agli ultimi ignari ormai evita a tutti i costi di entrare nel merito del problema, poiché in una discussione corretta non avrebbe alcuna chance di salvare la faccia. Per non parlare del fondoschiena.

Poiché l’epurazione di Janich costituisce una prova inoppugnabile del fatto che, proprio come nelle dittature, i giornalisti delle democrazie occidentali non sono più liberi di fare informazione come si deve, SOSTITUITEVI AI GIORNALISTI INADEMPIENTI E CONDIVIDETE QUEST’ARTICOLO CON QUANTA PIU’ GENTE POTETE, con tutti gli amici che avete, su Facebook e nella blogosfera. Molti hanno già capito da tempo come stanno le cose, ma ancora in troppi sono sentimentalmente incatenati a qualche giornale o giornalista a cui nel tempo si sono affezionati, e non vogliono rendersi conto di essere in realtà sempre stati - e di continuare a venire presi per il culo da dei mangiapane a tradimento. Forse questo piccolo caso tedesco li aiuterà a crescere.

Roberto Quaglia

www.edicola.biz


martedì 12 ottobre 2010

L’Inps nasconde la verità sulle pensioni ai precari


Il presidente dell'INPS Antonio Mastrapasqua ha finalmente risposto a chi gli chiedeva perché l'INPS non fornisce ai precari la simulazione della loro pensione futura come fa con gli altri lavoratori: "Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale".

I precari, i lavoratori parasubordinati come si chiamano per l'INPS gli "imprenditori di loro stessi" creati dalle politiche neoliberiste, non avranno la pensione. Pagano contributi inutilmente o meglio: li pagano perché L'INPS possa pagare la pensione a chi la maturerà. Per i parasubordinati la pensione non arriverà alla minima, nemmeno se il parasubordinato riuscirà, nella sua carriera lavorativa, a non perdere neppure un anno di contribuzione.

L'unico sistema che l'INPS ha trovato per affrontare l'amara verità, è stato quello di nascondere ai lavoratori che nel loro futuro la pensione non ci sarà, sperando che se ne accorgano il più tardi possibile e che facciano meno casino possibile.

Non si può non notare come anche la politica taccia su questo scandalo, ma non ci si potrebbe attendere altrimenti, perché a determinare questo scandalo hanno contribuito tutti i partiti attualmente rappresentati in parlamento, nessuno escluso.

I precari, tenuti all'oscuro o troppo occupati a sopravvivere, difficilmente noteranno la dichiarazione di Mastropasqua al Corriere della Sera e i media sembrano proprio intenzionati a non rovinare loro la sorpresa. Proprio una bella sorpresa.

http://www.agoravox.it/L-Inps-nasconde-la-verita-sulle.html

Il call center del malaffare

Andrea Palladino

Questa storia potrebbe iniziare in uno dei tanti porti turistici della costa laziale, a pochi chilometri da Roma, dove Yacht e piccoli velieri di lusso mostrano la faccia più dura della crisi, quella dei padroni e dei predoni. «Lady Canvas» è una barca da regata che ha uno sconosciuto armatore, il napoletano Giorgio Arcobello Varese. Il nome non dice nulla a chi non è passato almeno una volta nei gironi infernali dei call center, ottocentesche linee di montaggio dove il padrone della ferriera spesso si nasconde dietro vortici societari, serie di scatole cinesi che appaiono e si dissolvono a volte in poche ore. L'armatore di Lady Canvas la settimana scorsa era la persona più ricercata da un gruppo di lavoratrici e lavoratori di Pomezia, senza stipendio da circa un anno. Ultima ditta conosciuta la Herla Italia srl.

Il nome del battello di questo elegante napoletano - con la passione per i call center e i grovigli societari - ha un significato tutto particolare. Lo racconta una delle tante ragazze che ieri occupava l'edificio a specchio di Pomezia, dove lavoravano quasi 400 operatori di call center: «Il canvas è il nostro premio, che può essere un televisore, un cellulare, un computer. Lo vince chi produce, chi vende, chi riesce a prendere clienti con la telefonata vincente». Il canvas è quella specie di totem che nei call center fa girare il mondo del lavoro, ti fa sognare, ti droga di produttività e superlavoro. Chissà, forse era a questo che pensava l'armatore d'antan Giorgio Arcobello Varese, quando al suo Yacht da regata metteva quel nome misterioso, Lady Canvas. O forse era quello il suo premio, il suo sfizio per i fine settimana da skipper.

Nei circoli nautici della capitale, dove il battello fa la sua bella mostra, di certo non si parla di quei 400 lavoratori che devono ricevere in media 10.000 euro a testa di arretrati, dopo aver lavorato per anni vendendo di tutto. Da una settimana quaranta di loro hanno occupato il posto di lavoro, la palazzina a due piani nella prima periferia di Pomezia, città industriale alle porte di Roma. Sono saliti sui tetti, legandosi al cancello, ripercorrendo la strada delle migliaia di lavoratori che negli ultimi due anni sono stati travolti dalla crisi. Nel loro caso, però, il problema non è il calo delle commesse o la bufera finanziaria: nessuna cassa integrazione, nessuna mobilità, semplicemente hanno smesso di pagarli. «E la cosa più incredibile - raccontano - è che i nostri committenti, Edison e la Matrix, la società che vende spazi pubblicitari su virgilio.it hanno sempre regolarmente pagato le commesse».

Dall'Irlanda alla Romania

«Siamo arrivati in questi giorni, chiamati dai lavoratori che sono in una situazione disperata», raccontano Gianni Leonetti della Cgil Pomezia e Dino Oggiano, della Slc-Cgil del Lazio. Scorrono le visure camerali, leggono contratti di cessioni di rami di azienda, tracciano sui fogli bianchi i complessi incroci societari che girano intorno a Giorgio Arcobello Varese. «Vedrai che lui appare solo come un socio minoritario - raccontano i lavoratori - ma in realtà tutti qui sanno che è Giorgio il padrone. Tant'è che da quando abbiamo iniziato a protestare lui non si è fatto più vedere ed ora manda solo il suo avvocato». Come in altre storie di call center e lavoratori abbandonati al vertice delle piramidi societarie ci sono gruppi finanziari nascosti fuori dal confine italiano.

La Herla Italia srl dipende dalla Herla Holding, società con sede a Dublino, in Irlanda. Lo scorso marzo ha stretto un contratto di affitto di ramo d'azienda da un'altra società del gruppo, la Sercomm srl, ereditando - come si legge dal contratto - 327 dipendenti operativi, 22 non operativi e 15 collaboratori, per un totale di 364 lavoratori. Gran parte di loro era stato «stabilizzato» negli anni passati, ovvero assunto con contratto a tempo indeterminato. Lavoratori stabili, garantiti, che avevano raggiunto la loro metà. «Hanno iniziato a non pagarci più, quando già avevamo degli arretrati dalla precedente azienda, che ci aveva ceduto alla Herla», spiegano. Non solo. Con il tempo gli operatori del call center si accorgono che neanche i contributi venivano versati, ed iniziano a preoccuparsi. «Eppure siamo un'azienda in piena attività - racconta un ragazzo trentenne - tanto che in quattro mesi un gruppo di soli 15 operatori è riuscito a portare un fatturato di un milione di euro: adesso ci pagheranno, ci siamo detti». E invece nulla accadeva, salvo scoprire che i soldi entrati erano serviti ad aprire un call center in Albania e un altro in Romania.

Tutti contro tutti

Il colpo di scena arriva a settembre. Per prima cosa vengono individuati all'interno della azienda i lavoratori più difficili da gestire, quelli che si permettevano di chiedere il rispetto dei diritti, di contestare i rifiuti ad effettuare le pause garantite dal contratto e, soprattutto, di esigere il pagamento degli stipendi. Una quarantina in tutto, in buona parte ragazzi con esperienza, che conoscevano già bene l'azienda dove lavoravano. «Ci hanno isolati, sono arrivati a vietare agli altri di parlare con noi durante le pause», spiegano. Un mese fa Giorgio Arcobello Varese e la moglie, Marilena D'Orazio, hanno invitato uno ad uno i lavoratori più morbidi - o forse impauriti dalla sola idea di perdere il lavoro - ad una convention in un hotel a Pomezia. «Lei, Marilena, ha iniziato a piangere, si faceva abbracciare - racconta oggi chi ha partecipato - e alla fine a chi era andato all'incontro hanno proposto l'accordo che li avrebbe salvati». Tre pagine in tutto, decisamente vergognose: «Per seicento euro dovevi rinunciare ad ogni pretesa, compreso il contratto a tempo indeterminato, per poi essere assunto, diciamo così, con contratto a progetto, in una nuova società». Ed ecco che come per magia centinaia di lavoratori di una società non in crisi si trasformano da ingombranti dipendenti in leggeri, leggerissimi e decisamente più ricattabili collaboratori «a progetto». La nuova società, la Fidecomm, era pronta a prendere il testimone, negli stessi locali, con gli stessi compiti e, forse, con una parte delle stesse commesse.

Computer e minacce

La scorsa settimana i quaranta esclusi dall'accordo capestro hanno capito che ormai il loro destino era segnato. Hanno occupato i locali, salendo sul tetto dello stabilimento, prima, e di un grattacielo abbandonato poco dopo. Per ora nessuno ha mandato i vigilantes per cacciarli, come avvenne con Eutelia. «Qualcuno, però, ci ha chiamato sui cellulari - raccontano delle lavoratrici - e con accento del sud ci hanno detto che se non andavamo via qualcosa di brutto sarebbe accaduto. Chiamavano da numeri inesistenti, come avviene a volte con i sistemi dei call center». Per ora, durante la notte, mani abili e anonime hanno fatto sparire i due computer dell'amministrazione, entrando da una porta esterna senza forzare la serratura e poi simulando la rottura dell'ingresso interno, come a voler far ricadere la colpa sui lavoratori che occupano i locali.

Venerdì scorso gli avvocati delle società hanno offerto un primo pagamento di 900 euro - la maggior parte di loro deve ricevere più di 10 mila euro - e un tavolo di trattativa davanti al prefetto. Sembra chiaro, dunque, che il gruppo amministrato da Giorgio Arcobello Varese ha fretta di liberare i locali e di avviare la nuova società. «Ma noi non ce ne andremo fino a quando non verranno pagati tutti gli stipendi - scandiscono i lavoratori di Herla - e fino a quando non verranno rispettati tutti i diritti. Nessuno può dividerci». Due facce della crisi, lo yacht del padrone e la resistenza coraggiosa di chi quella barca l'ha pagata.

Link: http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/10/articolo/3494/

giovedì 7 ottobre 2010

Pappa e ciccia


Una risata ci seppellirà

Alessandro Robecchi
Il Manifesto

L’orchestrina che suonava sul Titanic, pur con l’acqua alle ginocchia, aveva almeno il suo stile. Le filastrocche zozze delle osterie cantate da ebbri, pur terribili, contengono qualcosa di schiettamente popolare.

Così come l’Italietta gretta-gretta dei campanili e dei localismi beceri partoriva tra tanto obbrobrio almeno i suoi caratteri letterari, i don Camilli, i Pepponi, i cumenda, i “teroni”, roba spicciola, ma vera, oro zecchino in confronto alla rivoltante scenetta andata in onda ieri all’ombra di Montecitorio. “Il patto della pajata”, scrivono le cronache, e ci sguazzano, in quella che si chiama “informazione soft” di cui si gonfiano i telegiornali. Coda alla vaccinara versus polenta, rigatoni e lambrusco, a suggellare la tregua controvoglia tra la Lega scorreggiona e il generone romano, tra il Bossi del dito medio e l’Alemanno sindaco piccolo-piccolo di una città grande-grande, con una Polverini governatice in vernacolo (vedemo, annamo…) al cui confronto la sora Lella sembra Rita Hayworth.

Il potere travestito da popolino, e di lui più grezzo e becero, e al tempo stesso finzione schifosa di un incontro per dovere, di due poteri che si odiano e che sono costretti ad andare a braccetto per non far crollare il castello, non far finire a processo il capo, portare a casa interessi contrapposti che si tengono in piedi come costruzioni precarie, ognuna poggiata sulle deboli pochezze dell’altra.
Calderoli a bocca piena, Polverini che imbocca Bossi, La Russa aggressivo e Gasparri gasparrico come al solito, dialetti incrociati e rivendicazioni gastro-territoriali, in un enorme disegno di Grosz che descrive tutta la ripugnanza e lo schifo di un potere logoro e sazio, incapace di qualunque sfida che non sia volgarità e insulto. Weimar, al confronto, pare Topolinia.

Troppo facili le ironie su questo incrocio tra suburra e Bagaglino, su questo intrecciarsi di povertà culturali che regna sul paese, e lo schiaccia. Film di quart’ordine e di volgarità assoluta, così come le barzellette del capo supremo e la di lui ricchezza. La trappola è nota: il colore, la nota satirica, lo sberleffo che strappa la risata e castiga, o prova a farlo. Ma non è – questa volta – una trappola in cui cadere. Troppo facile, e troppo poco, e anche impossibile – va detto – mettere in burla questo potere più di quanto faccia lui stesso. Intorno, dietro, accanto, un Paese impoverito e stanco, bloccato dalle cricche, senza modernità, neppure più quella feroce del mercato, ridotto a trastulli di potentati etnico-affaristici. Solo pochezze infinite e teatrini, di cui non ridere nemmeno, tanto che pure i militanti del Pd, con i loro stornelli di scherno alla scenetta patetica dei rigatoni e della polenta, partecipa al gioco, fanno parte per così dire del desolante quadretto, fanno cadere le braccia tanto quanto.

Senza conflitto, senza speranza, senza fronti avversi che possano scuoterlo, il potere deve fare da sé pure quello: crearsi la sua opposizione da dentro, farsi la sua satira da sé, ridicolizzarsi da solo. Con la bocca piena di sugo e il boccone nel gozzo, il rutto facile, la battuta al posto del ragionamento, la menzogna al posto della verità, la barzelletta al posto del racconto e la puttana al posto dell’amore. La pajata, la polenta, er vino, la risata sgangherata e il volemose bene che copre l’affilar di coltelli e gli interessi – banche, nomine, poltrone – zozzi pure loro. Cerimonia esemplare di quello che un paese non dovrebbe, non vorrebbe mai essere. E invece probabilmente è. Questo è quanto. Una prece, e chi può, si metta in salvo.

link:
http://www.alessandrorobecchi.it/index.php/201010/editoriale-una-risata-ci-seppellira