giovedì 7 ottobre 2010

Pappa e ciccia


Una risata ci seppellirà

Alessandro Robecchi
Il Manifesto

L’orchestrina che suonava sul Titanic, pur con l’acqua alle ginocchia, aveva almeno il suo stile. Le filastrocche zozze delle osterie cantate da ebbri, pur terribili, contengono qualcosa di schiettamente popolare.

Così come l’Italietta gretta-gretta dei campanili e dei localismi beceri partoriva tra tanto obbrobrio almeno i suoi caratteri letterari, i don Camilli, i Pepponi, i cumenda, i “teroni”, roba spicciola, ma vera, oro zecchino in confronto alla rivoltante scenetta andata in onda ieri all’ombra di Montecitorio. “Il patto della pajata”, scrivono le cronache, e ci sguazzano, in quella che si chiama “informazione soft” di cui si gonfiano i telegiornali. Coda alla vaccinara versus polenta, rigatoni e lambrusco, a suggellare la tregua controvoglia tra la Lega scorreggiona e il generone romano, tra il Bossi del dito medio e l’Alemanno sindaco piccolo-piccolo di una città grande-grande, con una Polverini governatice in vernacolo (vedemo, annamo…) al cui confronto la sora Lella sembra Rita Hayworth.

Il potere travestito da popolino, e di lui più grezzo e becero, e al tempo stesso finzione schifosa di un incontro per dovere, di due poteri che si odiano e che sono costretti ad andare a braccetto per non far crollare il castello, non far finire a processo il capo, portare a casa interessi contrapposti che si tengono in piedi come costruzioni precarie, ognuna poggiata sulle deboli pochezze dell’altra.
Calderoli a bocca piena, Polverini che imbocca Bossi, La Russa aggressivo e Gasparri gasparrico come al solito, dialetti incrociati e rivendicazioni gastro-territoriali, in un enorme disegno di Grosz che descrive tutta la ripugnanza e lo schifo di un potere logoro e sazio, incapace di qualunque sfida che non sia volgarità e insulto. Weimar, al confronto, pare Topolinia.

Troppo facili le ironie su questo incrocio tra suburra e Bagaglino, su questo intrecciarsi di povertà culturali che regna sul paese, e lo schiaccia. Film di quart’ordine e di volgarità assoluta, così come le barzellette del capo supremo e la di lui ricchezza. La trappola è nota: il colore, la nota satirica, lo sberleffo che strappa la risata e castiga, o prova a farlo. Ma non è – questa volta – una trappola in cui cadere. Troppo facile, e troppo poco, e anche impossibile – va detto – mettere in burla questo potere più di quanto faccia lui stesso. Intorno, dietro, accanto, un Paese impoverito e stanco, bloccato dalle cricche, senza modernità, neppure più quella feroce del mercato, ridotto a trastulli di potentati etnico-affaristici. Solo pochezze infinite e teatrini, di cui non ridere nemmeno, tanto che pure i militanti del Pd, con i loro stornelli di scherno alla scenetta patetica dei rigatoni e della polenta, partecipa al gioco, fanno parte per così dire del desolante quadretto, fanno cadere le braccia tanto quanto.

Senza conflitto, senza speranza, senza fronti avversi che possano scuoterlo, il potere deve fare da sé pure quello: crearsi la sua opposizione da dentro, farsi la sua satira da sé, ridicolizzarsi da solo. Con la bocca piena di sugo e il boccone nel gozzo, il rutto facile, la battuta al posto del ragionamento, la menzogna al posto della verità, la barzelletta al posto del racconto e la puttana al posto dell’amore. La pajata, la polenta, er vino, la risata sgangherata e il volemose bene che copre l’affilar di coltelli e gli interessi – banche, nomine, poltrone – zozzi pure loro. Cerimonia esemplare di quello che un paese non dovrebbe, non vorrebbe mai essere. E invece probabilmente è. Questo è quanto. Una prece, e chi può, si metta in salvo.

link:
http://www.alessandrorobecchi.it/index.php/201010/editoriale-una-risata-ci-seppellira