domenica 11 settembre 2011

Antigua, Costa Smeralda o San Vittore

Alessandro Robecchi
Il Manifesto

Riassunto puntate precedenti. Silvio fa schifo a tutti. La Marcegaglia e Confindustria non lo possono più vedere. I vescovi lo mollano, Bagnasco lo bacchetta. La Cisl, la camerierina del sig. Sacconi, comincia pure lei a storcere il naso. E questo per dire di alcuni che Silvio l'hanno sostenuto a lungo. I poteri forti, sempre se esistono, lo schifano da un pezzo, dimostrando così che non sono forti per niente. Le ragazze, più o meno Olgettine, più o meno a tassametro, più o meno signore della Bari bene (pensa tu la Bari male!) valutano se si può spremere ancora qualcosa dall'unico bancomat del mondo che si sia fatto catramare i capelli. Se sì, bene, se no, via, mollarlo. I compari di merende, i Tarantini, i Lavitola, cominciano a valutare se abbia ancora senso stare aggrappati a un paracadute bucato. Lele Mora parla che è un piacere. La Bce pensa che sia un povero caso umano. La Merkel non sarà esattamente compiaciuta dalle ultime indiscrezioni, così schifose che nemmeno mi spreco a dirle. La stampa mondiale lo chiama «pagliaccio» e «buffone» ad ogni edizione. I suoi elettori lo schifano facendolo precipitare nei sondaggi, certi suoi compagni di viaggio se ne vanno alla chetichella, oppure discutono di quel che succederà dopo di lui, se ne dividono le spoglie mentre ancora respira. Lui, caricatura del potere, deve pietire un incontro in Europa, giusto martedì, per scappare a una chiacchierata con i giudici. Alcuni avversari politici gli offrono un salvacondotto purché tolga il disturbo. Ormai che finisca ad Antigua, in Costa Smeralda o a San Vittore è indifferente a tutti, purché ci faccia la grazia di non insozzare più il Paese con la sua presenza, la sua totale incapacità, la sua volgarità intrisa di ignoranza, il suo dilettantismo. Ora che siamo sull'orlo del fallimento - quello vero - è ora che capiamo quanto ci è costato davvero Silvio Berlusconi. Troppo. Davanti a uno spettacolo così mediocre, può succedere che gli spettatori chiedano indietro i soldi e assaltino la cassa. Sarebbe ora.

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sabato 3 settembre 2011

Gheddafi e il Kamasutra politico.

di Scerif El Sebaie (Salamelik)

C
ome scrivevo appunto l'altro giorno, sono due i fatti che avrei voluto commentare durante questa pausa estiva e che recupero invece adesso. Del primo abbiamo già parlato, quindi passiamo al secondo: la caduta di Tripoli nelle mani dei ribelli anti-Gheddafi, coadiuvati da mercenari e addestratori stranieri. Una "vittoria che non c’è, e che nella misura in cui c’è non appartiene loro", come scrive correttamente Robi Ronza commentando i fatti libici. E l'indecorso spettacolo di alcuni politicanti che non hanno esitato, mentre ancora si sparava per le strade della città libica, a festeggiare la caduta del "dittattore sanguinario" pochissimi mesi dopo averlo accolto a suon di fanfare, ne vogliamo parlare? Un allucinante e leggermente disgustoso kamasutra politico.

Se ci sono "posizioni insostenibili" su Gheddafi in giro in questo momento di certo non sono le mie - visto che, non essendo un voltagabbana, la mia opinione sul Fratello Colonello non è cambiata - ma quelle dei signori che non hanno esitato a scaricare il leader libico foraggiando e finanziando, grazie ad un sequestro indiscriminato sia dei soldi del governo libico che di quelli di Gheddafi, una guerra civile che ha trasformato una della capitali con il reddito pro-capite più alto della regione in una città sull'orlo di una crisi umanitaria. E non è detto che la guerra civile si concluda in fretta o che non si trasformi - una volta sparito dalla scena il Colonello - in un regolamento di conti all'afghana tra le varie fazioni che già ora si scannano tra di loro.

Sarebbe meraviglioso, e davvero una bella lezione per l'Occidente, se la Libia si trasformasse in un'area di instabilità permanente dove scorrazzano terroristi e fondamentalisti vari, visto che in Libia non esiste uno stato che possa essere definito tale e una società civile degna di questo nome. Non a caso la NATO mette già le mani avanti paventando un possibile impiego di truppe di terra, come se questo potesse essere la panacea e non un ulteriore elemento di destabilizzazione. Il tutto sempre per proteggere i civili, si capisce. Civili che, secondo mezzi di informazione compiacenti e complici, avevano subito "bombardamenti aerei" e "strupri di massa" prima di essere seppelliti in "fosse comuni da 10.000 corpi" di cui però non è stata trovata la minima traccia o prova, esattamente come non è stata trovata ancora traccia delle armi di distruzione di massa di fu Saddam.

Come scrive Fabrizio Tringali in questo editoriale: "L'esperienza ha insegnato che il miglior casus belli, cioè quello comunemente più accettato dai cittadini, riguarda i diritti umani e la difesa della popolazione civile sotto l'attacco di un tiranno. Agli occidentali piacerà sempre pensarsi come "liberatori", mentre difficilmente essi abboccherebbero ancora a stupidaggini palesemente inventate come le armi di distruzione di massa di Saddam". E in effetti la strategia ha funzionato perché l'intervento è stato collegato ad un fatto vero: Gheddafi è un dittatore. Il più longevo del mondo arabo, per di più. Ma era anche l'unico dittatore arabo in grado di dire pane al pane e latte di cammella al latte di cammella, seppur in modo provocatorio e creativo. L'unico capace di denunciare, con atti pratici, l'ipocrisia dell'occidente e la sua sete di denaro. L'unico in grado di chiedere e ottenere risarcimenti per il passato colonialista, cosa che non è riuscita a nessun altro.

Il prossimo leader della Libia avrà il coraggio di opporsi ai diktat occidentali dopo aver abbondantemente usufruito dei droni e dei bombardamenti "mirati" senza i quali nessuna avanzata su Tripoli sarebbe stata possibile? Non credo proprio. La Libia, uno dei paesi più ricchi di petrolio di ottima qualità si trasformerà in una ghiotta preda da "ricostruire" a suon di barili. Persino il Corriere ha rispolverato la sua vecchia vocazione di quotidiano filocolonialista con una bella intervista ad un vecchietto libico intitolata "Tornino gli italiani". E magari anche i bombardamenti chimici e i campi di concentramento per cui erano tristemente conosciuti, mi viene da aggiungere.

Link originale
http://salamelik.blogspot.com/2011/09/gheddafi-e-il-kamasutra-politico.html

mercoledì 31 agosto 2011

Spremiamo i deboli, ancora, perchè no?

Un bell' articolo di Marco della Luna


LA MANOVRA CHE INSEGNA AD EMIGRARE

Il rifacimento 30.08.11 della manovra-bis di risanamento dei conti pubblici conferma il mio già più volte enunciato teorema, secondo cui la classe politica italiana non può tagliare, nemmeno in situazioni di emergenza, nemmeno per rilanciare l’economia in recessione, la spesa improduttiva (inutile, parassitaria, clientelare), perché è quella da cui dipende per arricchirsi e ancor prima mantenere il potere, e ne dipende tanto più rigidamente, quanto peggio amministra – perché quanto peggio amministra, tanto meno riceve sostegno fisiologico, e tanto più deve procurarselo in via clientelare e ladresca.

Il caso Penati non è un’eccezione, ma la regola: ciò di cui lo si accusa è semplicemente ciò per cui e con cui operano i partiti. E’ la regola, non l’eccezione criminale. E’ lo strumento della produzione del consenso, quindi della legittimazione politica, anche se per la legge formale è illecito. Il rifacimento della manovra era stato, per l’appunto, imposto dalle esigenze degli apparati dei partiti, i quali non possono rinunciare alla spesa degli enti locali perché da essa mangiano e traggono le risorse per ottenere i voti e le sponsorizzazioni. La nuova e stravolta versione della manovra è stato un rifacimento per salvare la greppia della casta. Per la medesima ragione i partiti non possono rinunciare alle 25.000 poltrone di consiglieri di amministrazione di enti misti, dove mangiano ancora di più. Non è possibile, per la nostra classe politica e burocratica cessare queste pratiche, perché da esse dipende la sua stessa esistenza. Non è possibile che essa si metta ad amministrare bene, perché l’unica cosa per cui si è selezionata e formata è quella pratica, quindi manca delle necessarie competenze tecniche per fare buona amministrazione. Infatti, non sa nemmeno far quadrare i conti sulla carta. Davanti al mondo si comporta in un modo grottescamente contraddittorio, convulso, indecoroso. Accecata e indementita dalla sua avidità, angosciata dal rischio di perdere le sue posizioni, è completamente appiattita sulla divorante esigenza di assicurare a se stessa i soldi e le risorse pubbliche con cui preservarsi nell’immediato, e a tal fine spreme il paese con ulteriore pressione fiscale, a costo di precipitarlo nella recessione. Del rilancio economico e del medio-lungo termine neanche si dà pensiero. E ciò non vale solo per il centro-destra, ma pure per il centro-sinistra, la cui contro-proposta arrivava a 1/10 della copertura e, come quella del centro-destra, non aveva reali strumenti per il rilancio economico.

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L'orto urbano di Berlino

Marina Zenobio

Il Manifesto


E' soprattutto a partire dagli anni '60 che il quartiere berlinese di Kreuzberg ha iniziato a ospitare migranti provenienti da più parti del mondo - dalla conca del Mediterraneo ai Balcani, da Africa, Asia e America latina -, diventando un crogiolo dove sono venute a contatto, amalgamandosi e contaminandosi, le culture più diverse. E anche le colture. E' infatti situato nel cuore di Kreuzberg, nella Moritzplatz, uno dei primi progetti berlinesi di agricoltura urbana; è qui che si coltivano pomodori i cui semi provengono da India, Turchia e Marocco, prezzemolo da Italia, Grecia e Giappone, patate da Africa e Perù, menta, hierbabuena e piante aromatiche provenienti da ogni angolo della terra.

L'idea però non è venuta da esperti agricoltori, tutt'altro. Robert Shaw, documentarista cinematografico di professione, e il fotografo Marco Clausen hanno iniziato a progettare l'orto nell'inverno del 2009, dopo un viaggio a Cuba da cui tornarono affascinati dagli orti urbani coltivati a L'Avana. Presero possesso di un terreno comunale di 6 mila metri quadrati abbandonato da decenni, con l'aiuto di amici lo ripulirono da tonnellate di immondizia cumulate da anni di incuria e iniziarono a coltivarlo.

Oggi questa proprietà non privata è in grado di produrre 15 varietà di patate, altrettante di pomodori, 10 di carote e zucchine, diversi tipi di cavoli, verze, bietole e tante piante aromatiche come prezzemolo, menta, basilico, santoreggia e coriandolo: una piccola ma preziosissima banca di germoplasma in situ a disposizione della comunità locale.

La maggior parte dei semi viene portata e regalata dagli abitanti del quartiere di ritorno da viaggi nei loro paesi d'origine, ma quando serve li comprano e li coltivano in quello che è stato battezzato «Il giardino delle principesse» (dal nome della strada dov'è situato, la Prinzessinnenstrasse), un progetto comunale a cui tutti gli abitanti del quartiere possono partecipare. Una gestione collettiva che permette, a chi disponibile a lavorare sul campo, di avere in cambio ortaggi e verdure a prezzi notevolmente inferiori a quelli offerti dal mercato. Al Prinzessinnengarten non si utilizzano concimi chimici né pesticidi e, dato che ciò che si produce si consuma localmente, non esistono costi aggiuntivi di trasporto e non si inquina.

Durante il rigido inverno berlinese, a coltivazioni ferme, il Prinzessinnengarten riprende la forma di un antico mercato coperto, ristrutturato di recente e utilizzato come centro comunitario e d'incontro, con un bar e un piccolo ristorante dove si cucinano zuppe ed altri piatti, unicamente a base di ortaggi ivi coltivati.

L'orto urbano di Shaw, Clausen e il loro ormai numeroso gruppo di lavoro, ha avuto un tale successo che sono stati chiamati a cooperare a simili progetti sia in altre città tedesche che all'estero (come Amsterdam e Parigi), tengono seminari con università e offrono consulenze. Si parte dalla chiara premessa che «tutti possono imparare di tutto» , ha dichiarato all'agenzia Tierramerica Robert Shaw, documentarista prestato all'agricoltura che ha ereditato l'amore per l'orticoltura dalla nonna, ossessionata dall'autosufficienza alimentare dopo aver conosciuto la fame in tempo di guerra.

Così, partendo dal Prinzessinnengarten di Berlino, le esperienze di agricoltura urbana cominciano ad affermarsi anche in altre grandi città europee. Forse stimolati da una sempre più crescente coscienza ambientalista, forse per i costi sempre più alti degli alimenti, e forse anche per il timore di restare senza cibo, paura interiorizzata nei periodi di benessere ma pur sempre presente nell'inconscio collettivo dei popoli.

Marina Zenobio
Fonte: www.ilmanifesto.it

giovedì 25 agosto 2011

Siamo in guerra?

--da LiberoPensiero, sulla situazione economica mondiale-Da leggere assolutamente.

Si chiama Christina Romer, è una economista importante. E' la punta di diamante della pattuglia di post keynesiani che sta al fronte per fermare i tecnocrati e i bancari del neo-liberismo selvaggio e criminale.


di Sergio Di Cori Modigliani

“L’uomo attraversa il presente con gli occhi bendati. Può al massimo immaginare e tentare di indovinare ciò che sta vivendo. Solo più tardi gli viene tolto il fazzoletto dagli occhi e lui, gettato uno sguardo al passato, si accorge di “che cosa” ha realmente vissuto e ne capisce il senso”
Milan Kundera da “Amori ridicoli”. Praga. 1968.


Questa citazione tratta da un romanzo, si riferisce all’approccio individualista esistenziale, e fa riferimento al rapporto che ciascuno di noi ha con l’assoluto nel tentativo di trovare un Senso Ultimo alla vita.
La Storia, che si occupa, invece, dei grandi disegni collettivi e non soltanto di quelli individuali, funziona però nello stesso identico modo. Tant’è che per comprendere una società, un popolo, un evento, è necessario leggere e studiare entrambi: i romanzieri dai quali apprendiamo gli umori, le sensazioni, le fantasie, le aspirazioni, i desideri dei singoli esseri umani; e gli storici, i quali, grazie al lungo studio dei documenti d’epoca, dell’analisi degli archivi e dei risultati ottenuti segnati dall’implacabile peso del Tempo trascorso, ci spiegano le ragioni e i motivi per cui c’è stata la rivoluzione francese, perché è crollato l’impero romano, perché è nato il protestantesimo, ecc.
Fintantochè si è immersi in quello che Joyce chiamava “il teatro quotidiano dell’incubo assurdo” è piuttosto arduo comprendere con esattezza i meccanismi che determinano la realtà e ciò che stiamo vivendo. Proprio perchè lo stiamo vivendo, ed essendo parte in causa, non abbiamo quell necessario distacco (che ha ogni storico di professione che si rispetti) per comprendere la realtà.
Esiste però una modalità di approccio, che io definisco l’approccio etico-eroico, che contraddistingue la becera passività dell’individuo-massa (condannato per definizione a bersi tutto ciò che viene comminato) e quella invece opposta, perché soggettiva e individualista, manifestata in un’aperta dichiarazione di schieramento. A questa appartengono gli artisti nella loro modalità apocalittico-visionaria-immaginifica (vedono come stanno le cose non si sa come) e i cosiddetti spiriti illuminati: individui che si assumono la responsabilità di “guidare la Storia” per far prevalere il bene comune, il progresso, il miglioramento della condizione esistenziale collettiva, contro coloro –invece- che vogliono far prevalere un egoismo personale, di casta, di censo, di ghetto, di clan, di tribù, imponendo con la violenza e la sopraffazione la propria volontà di parte sull’esercizio della volontà collettiva. Una scelta, quella di chi si schiera apertamente, rischiosa. Anzi. Rischiosissima. Perchè non esiste la rassicurante coperta della Storia (il senno del poi, dato che gli storici cominciano a rmboccarsi le maniche e mettersi al lavoro soltanto quando gli eventi si sono già verificati), non c’è nessuna garanzia sul fatto di aver ragione e tantomeno sul fatto che la propria Ragione, per quanto nobile possa essere riesca ad avere successo con beneficio di tutti.
Sarà soltanto la Storia a deciderlo.
Perchè lo si può sapere soltanto dopo.
E’ necessario, pertanto, nei momenti in cui la Storia ci chiama, crederci. Credere, con forza, vigore, argomentazioni. Senza una grande convinzione autentica non vi sarà mai espressione e manifestazione di una volontà di azione.
Questa era una premessa.
Grazie per l’attenzione (nel caso non vi siate già stancati e seguitiate a leggere).
Veniamo adesso al punto.
E il punto è molto semplice: siamo in guerra.
Esattamente come era in Spagna nel 1936 e lo slogan no pasaràn (non ce le faranno) era allo stesso tempo un monito per tutta l’Europa che tradotto suonava pressappoco così: “se il generale Franco vince in Spagna, l’Europa finirà in vacca e in una mostruosa guerra che la distruggerà” (evento puntualmente verificatosi di lì a quattro anni).
Esattamente com’era nel 1789 in Francia dove lo slogan libertè egalitè fraternità equivaleva a dire “se l’aristocrazia riprende e impone la propria logica di privilegi di casta contro l’idea di democrazia popolare, l’Europa si fermerà, si spegnerà e non progredirà”.
Oggi, 24 agosto 2011, non c’è nessuna possibilità matematica di sapere se siamo alla vigilia di una gigantesca rivoluzione planetaria, progressista e progressiva, come fu senz’alcun dubbio quella francese, oppure siamo alla vigilia di una immane catastrofe che produrrà soltanto fame, distruzione, e una estensione di povertà in Occidente quale non si verificava da almeno 500 anni. Lo sapremo soltanto dopo.
Nel frattempo, però, è bene schierarsi con convinzione e fare la propria puntata.
E’ ciò che stanno facendo, con dichiarata e aperta consapevolezza, diversi (per nostra fortuna sempre di più) economisti statunitensi, francesi, sudamericani, di grande livello, dotati di enorme competenza tecnica, di svariati successi alle spalle, ma soprattutto consapevoli che si è in guerra.
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LiberoPensiero

lunedì 25 luglio 2011

Per tutti i sardi..

Se non avessi viaggiato così non sarei indipendentista

di Michela Murgia
Sardegna 24

Non bisogna aver paura se il presidente Cappellacci all’incontro voluto dal governo italiano accetterà tutti i ricatti e darà il suo benestare per vendere la parte imprenditorialmente utile della Tirrenia – cioè il personale e le navi - ai tre porcellini del mar Mediterraneo: Manuel Grimaldi, Gianluigi Aponte e Vincenzo Onorato, ovvero la Compagnia Italiana di Navigazione (detta anche Cin).

Non importa se questi armatori sono sotto inchiesta dell’Antitrust per il recente aumento indiscriminato delle tariffe marittime da e per la Sardegna. Non importa neanche che i debiti della Tirrenia restino a carico del liquidatore statale, il quale con ogni probabilità farà loro fare la fine che hanno fatto le perdite dell’Alitalia nel passaggio alla famosa “cordata”: addosso ai contribuenti. Non conta neanche che nella bozza di accordo la Sardegna abbia una partecipazione di appena il 15%, un peso del tutto ininfluente sulla politica delle rotte e delle tariffe. Anzi. Di tutto questo io sono felice, perché così le condizioni di viaggio per i passeggeri sardi senza alternative torneranno finalmente quelle di una volta.

È la Tirrenia di una volta che ha fatto di me la donna che sono. I suoi bagni luridi hanno aumentato esponenzialmente le risorse del mio sistema immunitario: oggi sono così immunizzata che potrei andare in Indocina senza fare alcuna vaccinazione. Le sue cabine a quattro posti da condividere con perfetti sconosciuti mi hanno fatta diventare tollerante verso le diversità, aperta al nuovo e curiosa degli altri. I ponti insicuri sui quali ho trascorso tante notti perché la poltrona costava troppo mi hanno fatta riflettere sulla fragilità della nostra condizione umana, così esposta ai marosi del destino. Quando riuscivo a pagarmi una poltrona era in condizioni tali da farmi valutare come alternativa anche il linoleum scrostato del pavimento, insegnandomi che quando credi che il peggio sia arrivato, non è detto che sia davvero così. L’offerta di cibo nelle sue mense mi ha forgiata all’esercizio di un digiuno liberante.

La difficoltà di viaggiare con quelle vecchie carrette, sempre piene o con tratte lente a massimo risparmio di carburante, mi ha educata al valore della rinuncia, insegnandomi a non prendere le occasioni al volo, che non si sa mai dove ti portano. Vedere che per i turisti d'estate venivano messe navi migliori e più veloci mi ha insegnato che dall'altra parte del mare qualcuno era convinto che i sardi meritassero gli scarti, tanto non potevano scegliere.

Per me la vecchia Tirrenia monopolistica è stata una maestra di vita e una scuola di filosofia impareggiabile. Senza la Tirrenia io non sarei indipendentista, perché niente è mai stato efficace come la sua inefficienza - e la volontà politica di lasciarla tale - per farmi capire quanto la nostra libertà di far parte del resto del mondo fosse condizionata dalle decisioni altrui. Chissà che un ritorno al salubre passato non aiuti altri sardi a realizzare le stesse conclusioni.

24 luglio 2011

Link originale: http://www.sardegna24.net/dialoghi/michela-murgia/se-non-avessi-viaggiato-cosi-non-sarei-indipendentista-1.8276

giovedì 21 luglio 2011

Vieni avanti, Brunetta!

di PierGiorgio Odifreddi

Il Non Senso della Vita


Finalmente, sembra che anche i suoi ritardati colleghi di governo si siano accorti che il ministro Brunetta ha qualche problema in testa. A dire il vero, non solo le persone accelerate, ma anche quelle semplicemente normali, se n’erano accorte già molto tempo fa, vedendo un filmato su YouTube tratto da Matrix del 18 giugno 2008.

In un’intervista a un incredulo Enrico Mentana, il piccolo grande uomo aveva infatti rivelato di avere avuto maiuscole ambizioni: precisamente, di aver voluto vincere il Nobel per l’economia. Il conduttore cercando di salvarlo, osservò: “Spero che stia scherzando”. Ma lui, imperterrito, precisò che era veramente stato nella giusta categoria. Poi, purtroppo, “aveva prevalso l’amore per la politica”. Mentana, attonito, ribattè: “Se no l’avrebbe vinto?”. E Brunetta, serissimo, rispose soltanto: “Sì”.

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