domenica 24 ottobre 2010

La verità sull’11 Settembre era solo un pesce d’aprile fuori stagione: tappata a tempo di record in Germania la falla nel muro dell’omertà mediatica

Roberto Quaglia

Era un pesce d’Aprile e ci siamo cascati, ingannati probabilmente dal fatto che adesso è ottobre, cronologicamente agli antipodi di Aprile.

Avevamo riportato, pochi giorni fa, dell’incredibile fatto che la grande stampa si fosse finalmente occupata (in Germania) dei retroscena dell’ 11 settembre trattandoli per quelli che sono: una colossale truffa nei confronti del mondo intero! Si trattava di una piccola breccia nel muro dell’omertà mediatica con cui i giornalisti contemporanei nascondono, a quella parte fiduciosa della popolazione che vuole continuare a credere a ciò che fidati giornali e telegiornali raccontano loro, gli straordinari progressi dell’investigazione popolare sui fatti dell’11 settembre.

Nell’arco di dieci mesi il coraggioso giornalista tedesco Oliver Janich ha pubblicato non uno, ma ben due ampi articoli sulla importante rivista economica Focus Money, letta da centinaia di migliaia di persone. Articoli elaborati e ben argomentati, dritti al nocciolo delle cose, senza omissioni ed inganni. Avevamo ipotizzato che questo potesse essere il preludio al crollo della diga con la quale si cerca disperatamente di arginare l’afflusso della verità sul tema verso le popolazioni dell’Occidente democratico. Avevamo preconizzato uno tsunami di purissima merda il giorno che la diga fallata avesse ceduto.

Tutto sbagliato.

La falla nella diga è stata riparata a tempo di record dagli esperti ingegneri tappabuchi tedeschi della divisione “Orwell”.

L’articolo è stato infatti rimosso dalla versione online del giornale, al giornalista Janich è stato intimato di rimuovere la copia in PDF ospitata sul suo sito, ed il giornalista Janich stesso è stato epurato. Non lavorerà mai più per Focus Money. Né per le altre importanti testate con le quali aveva già collaborato, quali l’edizione tedesca del Financial Times, la Süddeutsche Zeitung ed altre.

“Nei miei confronti è già iniziata l’opera di character assassination.”Der Spiegel” ha immediatamente lanciato un attacco ad personam contro il giornalista. Ricordiamo che Der Spiegel, che adesso cerca di coprire i veri autori dell’11 settembre, in un passato affatto lontano analogamente si distinse per negare la diretta responsabilità nazista nel rogo del Reichstag nel 1933, l’evento che segnò l’affermazione finale del nazismo. Ha dichiarato Janich. La distruzione dell’immagine dei personaggi scomodi è ormai una prassi molto consueta, nell’Occidente democratico. “

Ovviamente, tutti si guardano bene dall’entrare nel merito dei fatti riportati da Janich nei suoi coraggiosi articoli. Nessuno prova a smontarne gli argomenti. Ci si limita a cercare di nascondere i cocci sotto il tappeto, sperando che la gente si dimentichi di quanto ha letto. Anche il caporedattore di Focus Money, che ha approvato gli articoli, è stato ora messo sotto pressione.

Tutto ciò sia istruttivo per chi, per inerzia, sentimentalismo o pigrizia, ancora si ostina a conservare fede nelle proprie testate giornalistiche preferite.

Una delle obiezioni che negli anni mi sono sentito rivolgere più spesso riguardo al mio libro sull’11 settembre, è stata quella che se l’11 settembre ci fosse stato un complotto governativo di tale portata, non si sarebbe riusciti a tenere le cose nascoste, qualcuno avrebbe parlato, i giornalisti avrebbero indagato. Umberto Eco stesso ha pubblicamente sostenuto questo argomento.

Adesso abbiamo l’irrefutabile dimostrazione empirica del perché questo argomento sia sbagliato.

In verità, sono stati moltissimi quelli hanno parlato, quelli che hanno fatto trapelare notizie segrete, in verità non si è riuscito a tenere le cose nascoste, in verità tutto ciò che era nascosto è in effetti saltato fuori nel tempo. Però, coloro che noi abbiamo delegato ad informarci rispetto a tutto ciò, ovvero i giornalisti, semplicemente… non ce lo hanno mai detto! Non ce lo hanno mai detto!

Ed ora abbiamo sotto gli occhi anche la prova sperimentale, la certezza empirica del perché non ce lo hanno detto!

Se un giornalista della grande stampa compie correttamente il proprio lavoro a questo proposito, perde immediatamente ogni possibilità futura di lavorare, i suoi articoli già scritti vengono cancellati, rimossi, nascosti, viene declassato per sempre al rango di innominabile paria. Oliver Janich non è il primo a subire questa sorte. Volete la lista intera?

Questo spiega perfettamente come mai il vostro quotidiano o telegiornale preferito non vi parlerà mai dei retroscena ormai assodati in merito ai fatti dell’11 settembre, e quando lo facesse, sarebbe solo per sviarvi, per vaccinarvi contro ulteriori curiosità. Se ancora è sopravvissuto nel vostro cuore un giornale o un telegiornale preferito, investite qualche minuto del vostro prezioso tempo a riflettere sul caso emblematico di Oliver Janich. Se la fede nel vostro giornale o TG sopravvive anche a queste riflessioni, guardatevi allo specchio. Negli occhi. A lungo. Chissà che non aiuti.

Mi era giunta voce che io fossi invitato a presentare il mio libro Il Mito dell’11 Settembre alla Fiera del Libro che si svolgerà a Trieste ad inizio novembre. Poi l’invito sarebbe decaduto. Per “motivi politici”. Chissà perché, la cosa non mi ha sorpreso affatto.

La mole di evidenza che dimostra la totale insensatezza della narrazione ufficiale dei fatti dell’11 settembre è tale, e continuamente cresce e si perfeziona e si consolida, che chi cerca di tenere la cosa nascosta agli ultimi ignari ormai evita a tutti i costi di entrare nel merito del problema, poiché in una discussione corretta non avrebbe alcuna chance di salvare la faccia. Per non parlare del fondoschiena.

Poiché l’epurazione di Janich costituisce una prova inoppugnabile del fatto che, proprio come nelle dittature, i giornalisti delle democrazie occidentali non sono più liberi di fare informazione come si deve, SOSTITUITEVI AI GIORNALISTI INADEMPIENTI E CONDIVIDETE QUEST’ARTICOLO CON QUANTA PIU’ GENTE POTETE, con tutti gli amici che avete, su Facebook e nella blogosfera. Molti hanno già capito da tempo come stanno le cose, ma ancora in troppi sono sentimentalmente incatenati a qualche giornale o giornalista a cui nel tempo si sono affezionati, e non vogliono rendersi conto di essere in realtà sempre stati - e di continuare a venire presi per il culo da dei mangiapane a tradimento. Forse questo piccolo caso tedesco li aiuterà a crescere.

Roberto Quaglia

www.edicola.biz


martedì 12 ottobre 2010

L’Inps nasconde la verità sulle pensioni ai precari


Il presidente dell'INPS Antonio Mastrapasqua ha finalmente risposto a chi gli chiedeva perché l'INPS non fornisce ai precari la simulazione della loro pensione futura come fa con gli altri lavoratori: "Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale".

I precari, i lavoratori parasubordinati come si chiamano per l'INPS gli "imprenditori di loro stessi" creati dalle politiche neoliberiste, non avranno la pensione. Pagano contributi inutilmente o meglio: li pagano perché L'INPS possa pagare la pensione a chi la maturerà. Per i parasubordinati la pensione non arriverà alla minima, nemmeno se il parasubordinato riuscirà, nella sua carriera lavorativa, a non perdere neppure un anno di contribuzione.

L'unico sistema che l'INPS ha trovato per affrontare l'amara verità, è stato quello di nascondere ai lavoratori che nel loro futuro la pensione non ci sarà, sperando che se ne accorgano il più tardi possibile e che facciano meno casino possibile.

Non si può non notare come anche la politica taccia su questo scandalo, ma non ci si potrebbe attendere altrimenti, perché a determinare questo scandalo hanno contribuito tutti i partiti attualmente rappresentati in parlamento, nessuno escluso.

I precari, tenuti all'oscuro o troppo occupati a sopravvivere, difficilmente noteranno la dichiarazione di Mastropasqua al Corriere della Sera e i media sembrano proprio intenzionati a non rovinare loro la sorpresa. Proprio una bella sorpresa.

http://www.agoravox.it/L-Inps-nasconde-la-verita-sulle.html

Il call center del malaffare

Andrea Palladino

Questa storia potrebbe iniziare in uno dei tanti porti turistici della costa laziale, a pochi chilometri da Roma, dove Yacht e piccoli velieri di lusso mostrano la faccia più dura della crisi, quella dei padroni e dei predoni. «Lady Canvas» è una barca da regata che ha uno sconosciuto armatore, il napoletano Giorgio Arcobello Varese. Il nome non dice nulla a chi non è passato almeno una volta nei gironi infernali dei call center, ottocentesche linee di montaggio dove il padrone della ferriera spesso si nasconde dietro vortici societari, serie di scatole cinesi che appaiono e si dissolvono a volte in poche ore. L'armatore di Lady Canvas la settimana scorsa era la persona più ricercata da un gruppo di lavoratrici e lavoratori di Pomezia, senza stipendio da circa un anno. Ultima ditta conosciuta la Herla Italia srl.

Il nome del battello di questo elegante napoletano - con la passione per i call center e i grovigli societari - ha un significato tutto particolare. Lo racconta una delle tante ragazze che ieri occupava l'edificio a specchio di Pomezia, dove lavoravano quasi 400 operatori di call center: «Il canvas è il nostro premio, che può essere un televisore, un cellulare, un computer. Lo vince chi produce, chi vende, chi riesce a prendere clienti con la telefonata vincente». Il canvas è quella specie di totem che nei call center fa girare il mondo del lavoro, ti fa sognare, ti droga di produttività e superlavoro. Chissà, forse era a questo che pensava l'armatore d'antan Giorgio Arcobello Varese, quando al suo Yacht da regata metteva quel nome misterioso, Lady Canvas. O forse era quello il suo premio, il suo sfizio per i fine settimana da skipper.

Nei circoli nautici della capitale, dove il battello fa la sua bella mostra, di certo non si parla di quei 400 lavoratori che devono ricevere in media 10.000 euro a testa di arretrati, dopo aver lavorato per anni vendendo di tutto. Da una settimana quaranta di loro hanno occupato il posto di lavoro, la palazzina a due piani nella prima periferia di Pomezia, città industriale alle porte di Roma. Sono saliti sui tetti, legandosi al cancello, ripercorrendo la strada delle migliaia di lavoratori che negli ultimi due anni sono stati travolti dalla crisi. Nel loro caso, però, il problema non è il calo delle commesse o la bufera finanziaria: nessuna cassa integrazione, nessuna mobilità, semplicemente hanno smesso di pagarli. «E la cosa più incredibile - raccontano - è che i nostri committenti, Edison e la Matrix, la società che vende spazi pubblicitari su virgilio.it hanno sempre regolarmente pagato le commesse».

Dall'Irlanda alla Romania

«Siamo arrivati in questi giorni, chiamati dai lavoratori che sono in una situazione disperata», raccontano Gianni Leonetti della Cgil Pomezia e Dino Oggiano, della Slc-Cgil del Lazio. Scorrono le visure camerali, leggono contratti di cessioni di rami di azienda, tracciano sui fogli bianchi i complessi incroci societari che girano intorno a Giorgio Arcobello Varese. «Vedrai che lui appare solo come un socio minoritario - raccontano i lavoratori - ma in realtà tutti qui sanno che è Giorgio il padrone. Tant'è che da quando abbiamo iniziato a protestare lui non si è fatto più vedere ed ora manda solo il suo avvocato». Come in altre storie di call center e lavoratori abbandonati al vertice delle piramidi societarie ci sono gruppi finanziari nascosti fuori dal confine italiano.

La Herla Italia srl dipende dalla Herla Holding, società con sede a Dublino, in Irlanda. Lo scorso marzo ha stretto un contratto di affitto di ramo d'azienda da un'altra società del gruppo, la Sercomm srl, ereditando - come si legge dal contratto - 327 dipendenti operativi, 22 non operativi e 15 collaboratori, per un totale di 364 lavoratori. Gran parte di loro era stato «stabilizzato» negli anni passati, ovvero assunto con contratto a tempo indeterminato. Lavoratori stabili, garantiti, che avevano raggiunto la loro metà. «Hanno iniziato a non pagarci più, quando già avevamo degli arretrati dalla precedente azienda, che ci aveva ceduto alla Herla», spiegano. Non solo. Con il tempo gli operatori del call center si accorgono che neanche i contributi venivano versati, ed iniziano a preoccuparsi. «Eppure siamo un'azienda in piena attività - racconta un ragazzo trentenne - tanto che in quattro mesi un gruppo di soli 15 operatori è riuscito a portare un fatturato di un milione di euro: adesso ci pagheranno, ci siamo detti». E invece nulla accadeva, salvo scoprire che i soldi entrati erano serviti ad aprire un call center in Albania e un altro in Romania.

Tutti contro tutti

Il colpo di scena arriva a settembre. Per prima cosa vengono individuati all'interno della azienda i lavoratori più difficili da gestire, quelli che si permettevano di chiedere il rispetto dei diritti, di contestare i rifiuti ad effettuare le pause garantite dal contratto e, soprattutto, di esigere il pagamento degli stipendi. Una quarantina in tutto, in buona parte ragazzi con esperienza, che conoscevano già bene l'azienda dove lavoravano. «Ci hanno isolati, sono arrivati a vietare agli altri di parlare con noi durante le pause», spiegano. Un mese fa Giorgio Arcobello Varese e la moglie, Marilena D'Orazio, hanno invitato uno ad uno i lavoratori più morbidi - o forse impauriti dalla sola idea di perdere il lavoro - ad una convention in un hotel a Pomezia. «Lei, Marilena, ha iniziato a piangere, si faceva abbracciare - racconta oggi chi ha partecipato - e alla fine a chi era andato all'incontro hanno proposto l'accordo che li avrebbe salvati». Tre pagine in tutto, decisamente vergognose: «Per seicento euro dovevi rinunciare ad ogni pretesa, compreso il contratto a tempo indeterminato, per poi essere assunto, diciamo così, con contratto a progetto, in una nuova società». Ed ecco che come per magia centinaia di lavoratori di una società non in crisi si trasformano da ingombranti dipendenti in leggeri, leggerissimi e decisamente più ricattabili collaboratori «a progetto». La nuova società, la Fidecomm, era pronta a prendere il testimone, negli stessi locali, con gli stessi compiti e, forse, con una parte delle stesse commesse.

Computer e minacce

La scorsa settimana i quaranta esclusi dall'accordo capestro hanno capito che ormai il loro destino era segnato. Hanno occupato i locali, salendo sul tetto dello stabilimento, prima, e di un grattacielo abbandonato poco dopo. Per ora nessuno ha mandato i vigilantes per cacciarli, come avvenne con Eutelia. «Qualcuno, però, ci ha chiamato sui cellulari - raccontano delle lavoratrici - e con accento del sud ci hanno detto che se non andavamo via qualcosa di brutto sarebbe accaduto. Chiamavano da numeri inesistenti, come avviene a volte con i sistemi dei call center». Per ora, durante la notte, mani abili e anonime hanno fatto sparire i due computer dell'amministrazione, entrando da una porta esterna senza forzare la serratura e poi simulando la rottura dell'ingresso interno, come a voler far ricadere la colpa sui lavoratori che occupano i locali.

Venerdì scorso gli avvocati delle società hanno offerto un primo pagamento di 900 euro - la maggior parte di loro deve ricevere più di 10 mila euro - e un tavolo di trattativa davanti al prefetto. Sembra chiaro, dunque, che il gruppo amministrato da Giorgio Arcobello Varese ha fretta di liberare i locali e di avviare la nuova società. «Ma noi non ce ne andremo fino a quando non verranno pagati tutti gli stipendi - scandiscono i lavoratori di Herla - e fino a quando non verranno rispettati tutti i diritti. Nessuno può dividerci». Due facce della crisi, lo yacht del padrone e la resistenza coraggiosa di chi quella barca l'ha pagata.

Link: http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/10/articolo/3494/

giovedì 7 ottobre 2010

Pappa e ciccia


Una risata ci seppellirà

Alessandro Robecchi
Il Manifesto

L’orchestrina che suonava sul Titanic, pur con l’acqua alle ginocchia, aveva almeno il suo stile. Le filastrocche zozze delle osterie cantate da ebbri, pur terribili, contengono qualcosa di schiettamente popolare.

Così come l’Italietta gretta-gretta dei campanili e dei localismi beceri partoriva tra tanto obbrobrio almeno i suoi caratteri letterari, i don Camilli, i Pepponi, i cumenda, i “teroni”, roba spicciola, ma vera, oro zecchino in confronto alla rivoltante scenetta andata in onda ieri all’ombra di Montecitorio. “Il patto della pajata”, scrivono le cronache, e ci sguazzano, in quella che si chiama “informazione soft” di cui si gonfiano i telegiornali. Coda alla vaccinara versus polenta, rigatoni e lambrusco, a suggellare la tregua controvoglia tra la Lega scorreggiona e il generone romano, tra il Bossi del dito medio e l’Alemanno sindaco piccolo-piccolo di una città grande-grande, con una Polverini governatice in vernacolo (vedemo, annamo…) al cui confronto la sora Lella sembra Rita Hayworth.

Il potere travestito da popolino, e di lui più grezzo e becero, e al tempo stesso finzione schifosa di un incontro per dovere, di due poteri che si odiano e che sono costretti ad andare a braccetto per non far crollare il castello, non far finire a processo il capo, portare a casa interessi contrapposti che si tengono in piedi come costruzioni precarie, ognuna poggiata sulle deboli pochezze dell’altra.
Calderoli a bocca piena, Polverini che imbocca Bossi, La Russa aggressivo e Gasparri gasparrico come al solito, dialetti incrociati e rivendicazioni gastro-territoriali, in un enorme disegno di Grosz che descrive tutta la ripugnanza e lo schifo di un potere logoro e sazio, incapace di qualunque sfida che non sia volgarità e insulto. Weimar, al confronto, pare Topolinia.

Troppo facili le ironie su questo incrocio tra suburra e Bagaglino, su questo intrecciarsi di povertà culturali che regna sul paese, e lo schiaccia. Film di quart’ordine e di volgarità assoluta, così come le barzellette del capo supremo e la di lui ricchezza. La trappola è nota: il colore, la nota satirica, lo sberleffo che strappa la risata e castiga, o prova a farlo. Ma non è – questa volta – una trappola in cui cadere. Troppo facile, e troppo poco, e anche impossibile – va detto – mettere in burla questo potere più di quanto faccia lui stesso. Intorno, dietro, accanto, un Paese impoverito e stanco, bloccato dalle cricche, senza modernità, neppure più quella feroce del mercato, ridotto a trastulli di potentati etnico-affaristici. Solo pochezze infinite e teatrini, di cui non ridere nemmeno, tanto che pure i militanti del Pd, con i loro stornelli di scherno alla scenetta patetica dei rigatoni e della polenta, partecipa al gioco, fanno parte per così dire del desolante quadretto, fanno cadere le braccia tanto quanto.

Senza conflitto, senza speranza, senza fronti avversi che possano scuoterlo, il potere deve fare da sé pure quello: crearsi la sua opposizione da dentro, farsi la sua satira da sé, ridicolizzarsi da solo. Con la bocca piena di sugo e il boccone nel gozzo, il rutto facile, la battuta al posto del ragionamento, la menzogna al posto della verità, la barzelletta al posto del racconto e la puttana al posto dell’amore. La pajata, la polenta, er vino, la risata sgangherata e il volemose bene che copre l’affilar di coltelli e gli interessi – banche, nomine, poltrone – zozzi pure loro. Cerimonia esemplare di quello che un paese non dovrebbe, non vorrebbe mai essere. E invece probabilmente è. Questo è quanto. Una prece, e chi può, si metta in salvo.

link:
http://www.alessandrorobecchi.it/index.php/201010/editoriale-una-risata-ci-seppellira

giovedì 16 settembre 2010

Superpensioni e doppi redditi

Salvatore Cannavò
(da Il Fatto quotidiano)

Lo Stato chiede sacrifici, blocca gli stipendi, taglia i servizi agli enti locali, quindi ai cittadini, ma continua a sperperare e a incubare sacchi di sprechi e privilegi. Un esempio di questa situazione è dato dalle pensioni pubbliche incassate, mese dopo mese, da diversi dirigenti di Stato, parlamentari, ex presidenti del Consiglio o ex presidenti della Repubblica, che risultano pensionati dell'Istituto dei dipendenti pubblici, l'Inpdap, ma che, allo stesso tempo, continuano a percepire importanti compensi per i loro incarichi pubblici. Siano essi parlamentari, consulenti di ministeri, ministri o ex ministri, senatori a vita, tutti godono di importanti indennità rigorosamente pubbliche e a carico del bilancio generale.

Contemporaneamente, percepiscono anche una pensione pubblica. Ma non la pensione che si possono immaginare lavoratori e lavoratrici dipendenti "normali", cioè 700-800 euro al mese, quando va bene 1000 o 1200 euro. No, qui parliamo di emolumenti un po' più corposi: 3 o 4 mila euro al mese, quando va male; quando va bene si arriva a 8 mila e anche a 12 mila euro al mese. Del resto, la Legge 133/2008, la prima "manovra" economica di Tremonti - quella fatta "in 9 minuti" - ha abrogato, dal 2009, il divieto di cumulo, salvo alcune eccezioni, tra reddito di pensione e reddito di lavoro dipendente e autonomo. Così la somma di due redditi, in particolare se pubblici, è del tutto lecita.

Peccato che quella stessa legge ha mantenuto le restrizioni per i titolari di pensione di invalidità e di reversibilità. In questi casi, infatti, permangono le restrizioni della riforma Dini, che impongono un taglio progressivo dell’assegno se gli altri redditi superano un determinato importo. Così come sono state mantenute le restrizioni per i seguenti soggetti: lavoratori part time che percepiscono la metà della pensione; lavoratori socialmente utili che percepiscono trattamenti provvisori; titolari di assegni straordinari per il sostegno del reddito pagati dai fondi di solidarietà; i dipendenti pubblici riammessi in servizio nella PA; titolari di assegni contributivi conseguiti con meno di 40 anni di contributi ovvero prima dell’età pensionabile e senza i requisiti previsti dalla legge 247/2007.

La pensione di Draghi

Per il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, il cumulo invece è possibile e la norma applicata dal governo Berlusconi ha avuto un valore significativo.

L'alto dirigente italiano, molto stimato in Patria e fuori, tanto da essersi visto assegnato l'incarico di presidente del Financial Stability Board, la commissione del Fondo monetario internazionale incaricata di garantire la stabilità finanziaria nel mondo, non può certo lamentarsi del compenso di cui gode per l'alto incarico che svolge. Eppure, accanto alla sua indennità d'oro, Mario Draghi incassa ogni mese una pensione lorda di 14.843 euro che diventa di 8.614,68 euro al netto delle ritenute. Fino al 2008, tra le ritenute c'era anche la trattenuta per cumulo tra pensione e reddito da lavoro, una condizione che al Governatore "costava" circa 4500 euro al mese. Dal gennaio 2009, questa riduzione della pensione è stata eliminata e così si arriva all'attuale assegno mensile. Un reddito con il quale si vive non male al centro di Roma, sostenendo un tenore di vita medio-alto. Insomma, Draghi il Governatore della Banca d'Italia potrebbe farlo anche gratis. Ma, battute a parte, sarebbe sufficiente sospendere la pensione pubblica fino a quando è in carica nel suo servizio per far risparmiare allo Stato un bel po' di soldini. Da notare che il Governatore, tra i più accaniti sostenitori della necessità di alzare l'età pensionistica per tutti, uomini e donne, beneficia del suo assegno mensile dal 2005, il che vuol dire che è andato in pensione all'età di 58 anni.

Non ha più incarichi di governo o similari ma in quanto a collezione di cariche prestigiose Giuliano Amato non scherza. E' il presidente dell'Enciclopedia Treccani, da quest'anno è stato nominato senior advisor della Deutsche Bank e soprattutto Presidente del Comitato Garanti per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia in sostituzione del presidente Ciampi. E' poi ex parlamentare, ex primo ministro e gode quindi delle relative indennità. Eppure, accanto a tutto questo, incassa anche una pensione lorda mensile di 22 mila euro che si traduce in un assegno netto di 12.518 euro. Vale la pena di ricordare che si tratta di un importo pari a 20 volte (venti volte) una pensione al minimo che oggi è pari a 530 euro mensili e che è appannaggio di milioni di persone. Lo segnaliamo per amor di cronaca.

Il cumulo di Brunetta

Andiamo avanti con segnalazioni eccellenti. Il nemico giurato dei "fannulloni" pubblici, colui che vorrebbe "colpirne uno per educarne cento" e per il quale i dipendenti dell'amministrazione pubblica certo non stravedono fa parte di questa lista di privilegiati. Renato Brunetta, infatti, all'età di 60 anni si è messo in pensione come docente percependo una pensione che, paragonata a quelle precedenti, sembra modesta ma che comunque equivale a 3 mila euro netti al mese. Però Brunetta è parlamentare e ministro e a occhio e croce dovrebbe intascare circa 20 mila euro al mese che gli provengono sempre da denaro pubblico. Più la pensione. E che dire di un altro fustigatore del lavoro dipendente, di uno che vorrebbe portare l'età pensionabile a chissà quale limite, sempre in prima fila a chiedere correzioni liberiste al bilancio dello Stato dal quale, però, incassa una pensione di 6.385 euro al mese godendo, contestualmente, dell'indennità di parlamentare che, ricordiamo, sfiora, tutto compreso, i 15 mila euro al mese. Parliamo di Giuliano Cazzola, classe '41, già dirigente generale del Ministero del Lavoro, impegnato in Cgil fino ai primi anni 90 e poi spostatosi su posizioni "liberalsocialiste" in linea con alcuni suoi "compagni" di partito come Sacconi e Brunetta. Oltre a essere parlamentare, Cazzola è anche professore a contratto presso l'Università di Bologna e collabora con diversi giornali quotidiani.

Indennità a vita

Poi ci sono alcuni casi più che curiosi. Parliamo dei senatori della Repubblica, ma quelli veri, i "padri" della Patria, i senatori a vita. Citiamo solo due esempi, collocati su posizioni diverse: Giulio Andreotti e Oscar Luigi Scalfaro. Il primo, ha una "pensioncina" di 3.440 euro netti che gode dal 1992. Contemporaneamente, oltre a essere stato praticamente tutto nella storia della Repubblica è anche senatore a vita. Insomma, ha una indennità vitalizia garantita e potrebbe certo fare a meno di quella pensione pagatagli dall'Inpdap. Stesso discorso per Scalfaro che, oltre a essere senatore a vita è stato anche Presidente della Repubblica e che usufruisce di un assegno mensile di 4.774 euro.

E poi tanti altri casi, di centrodestra o di centrosinistra. L'ex ministro Scajola che probabilmente a sua insaputa, percepisce una pensione netta di 2.625 euro in qualità di dipendente Inpdap - dove però giurano di averlo visto poco - e che è anche parlamentare (e vedremo cosa ci riserverà il futuro); Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera, una vita in Parlamento ma anche pensionato pubblico con 3.258 euro al mese; il pd Giuseppe Fioroni, la cui pensione impallidisce al cospetto delle altre, ma che pure all'indennità parlamentare aggiunge 1.218 euro al mese. Fino ad arrivare a Antonio Di Pietro, andato in pensione all'età di 45 anni, nel 1995 e titolare di una pensione di 1.956 euro al mese a cui aggiunge le altre indennità cui ha diritto.

Uno studio dei Cobas-Inpdap - autori di un volumetto in cui sono state pubblicate queste cifre - stima in circa 25 mila i fruitori di pensioni cumulate ad altri redditi provenienti da consulenze, incarichi parlamentari e altro. «Se si applicasse ai personaggi riportati nel nostro elenco (oltre ai già citati ci sono anche Mario Baldassarri, Sergio D'Antoni, Publio Fiori, Giorgio Guazzaloca, Antonio Martino, Andrea Monorchio, Girolamo Sirchia e altri ancora ndr.) il divieto di cumulo - ci spiega Ettore Davoli, del Cobas Inpdap di Roma - in quanto percettori di altri redditi, che non sono certo redditi da fame, potremmo avere un risparmio di circa 193 mila euro mensili». Il risparmio complessivo potrebbe essere quindi molto alto, se non i 3 miliardi calcolati dal Cobas sicuramente una cifra compresa tra 1 e 2 miliardi di euro. Una piccola manovrina e una misura di equità.

Link originale :

http://www.ilmegafonoquotidiano.it/news/superpensioni-e-doppi-redditi

lunedì 2 agosto 2010

Quanto sei bella Roma..

..da Piovono Rane

LUCI ED OMBRE DELLA MEDICINA CONVENZIONALE

Franco Libero Manco

da Luigiboschi.it

Nel 1535 Jacques Cartier salpò dalle coste della Francia diretto verso Terranova con un equipaggio di 110 uomini. In 6 settimane 100 uomini si ammalarono di scorbuto. Un indigeno disse loro di bere succhi dei frutti di un albero che crescevano in quella zona e gli uomini guarirono nel giro di pochi giorni. Da quell'episodio capitani di navi accorti e lungimiranti comandarono al loro equipaggio di consumare succhi di arancia e limone per scongiurare lo scorbuto. Ci volle molto tempo prima che il mondo medico accettasse questa semplice soluzione, ma alla fine nel 1795 dovette soccombere al buon senso e il succo di limone diventò obbligatorio nella dieta dei marinai.

Uno dei motivi per cui le infezioni sono così numerose in ospedale è che molti infermieri amano più gli antibiotici che lavarsi le mani. Quando nel 1843 Oliver W. Holmes suggeriva ai medici di cambiare gli indumenti e lavarsi le mani dopo aver visitato i pazienti affetti da febbre puerperale le sue richieste vennero completamente ignorate. Anche l'avvento dell'anestesia è stata per lungo tempo trascurata se non osteggiata dal mondo medico e venne ufficialmente accettata soltanto quando la regina Vittoria diede alla luce il principe Leopoldo sotto l'effetto del cloroformio. Fino al 1980 era prassi comune operare i bambini senza anestesia perché si riteneva che fossero incapaci di provare dolore.

Da dati riportati da vari libri e giornali, pare che oggi i medici causano più malattie e decessi del cancro o delle cardiopatie. Una persona su 6 si trova in ospedale a causa del medico. Le reazioni negative ai farmaci sono la quinta causa di morte negli Usa perché i medici non comprendono i pericoli associati ai farmaci. Il 40% delle persone che assume farmaci subisce pesanti effetti collaterali, daltronde nessuno può stabilire in anticipo quali saranno le conseguenze sulla salute di un farmaco lanciato sul mercato. Molte più persone vengono uccise dai farmaci prescritti che dall'uso illegale di droghe. Solo in Australia ogni anno vengono ricoverate quasi mezzo milione di persone perché dei medici li hanno fatti ammalare e 18.000 di questi muoiono ogni anno a causa di errori medici, tossicità dei farmaci, errori chirurgici ecc., mentre negli Usa i casi di mortalità a causa dei medici si aggira intorno alle 200.000 unità. E le cifre in Europa non sono più incoraggianti dove medici e medicine pare che uccidono più persone di tutti i tipi di cancro. In realtà i medici rappresentano una delle principale causa di malattie e morte molto più di tutti gli altri tipi di problemi messi insieme, compreso cancro e malattie cardiache.

Daltronde, come afferma la stessa rivista British Medical Journal, 6 trattamenti su 7 non sono supportati da prove scientifiche. Il problema di fondo è che gran parte della ricerca medica è organizzata, pagata, commissionata e sponsorizzata dall'industria farmaceutica che è fatta per produrre buone recensioni e non certo arrecare danno a se stessa. Pare che molti degli scienziati implicati sono pronti a modificare i risultati dei loro esperimenti se questi non danno i risultati sperati. Si calcola che almeno il 12% delle ricerche scientifiche siano false.

Anche gli esami e le analisi per le diagnosi mediche pare non siano affidabili: non riescono a prevedere l'andamento di una malattia nel 50% dei casi. Dei patologi hanno effettuato diverse centinaia di autopsie scoprendo che più della metà dei defunti era morto per una causa diversa da quella diagnosticata, praticamente aveva ricevuto un trattamento medico sbagliato. E se la vita media si è allungata (ma non certo il benessere della persona) ciò non è dovuto ai medici e alle medicine ma all'igiene, all'acqua corrente, al riscaldamento centralizzato, al poco lavoro, alla riduzione della mortalità infantile, alla carenza di guerre. Ci sono più malati oggi di quante ce ne siano stati in tutta la storia umana. In sostanza si può dedurre che dopo i 65 anni di età il cittadino è un peso per lo Stato e cerca di sostituirlo con chi produce.

Il numero delle persone che muoiono a causa dei medici è 4 volte maggiore di quello delle persone che muoiono per incidenti stradali. Praticamente il medico ha più probabilità di ucciderci della nostra automobile. In realtà i medici oggi sono solo un canale commerciale dell'industria farmaceutica e gran parte dei medicinali che prescrivono non si conosce gli effetti perché tutti i medicinali, nessuno escluso, sono sperimentati sugli animali. Insomma i medici uccidono più persone di quante non ne curino e causano più malattie e disagi di quanti ne riescano ad alleviare: il motivo è da ricercare nel fatto che la classe medica è in stretta alleanza con l'industria farmaceutica.

Almeno il 70% degli esami e dei test richiesti dal medico non sono necessari. Un sondaggio ha dimostrato che le analisi del sangue e delle urine consentono al medico di formulare una diagnosi esatta solo all'1% dei casi. Uno studio recente ha dimostrato che su 93 bambini cui erano state diagnosticate malattie di cuore solo il 15% erano realmente malati.

Se si dovesse classificare l'industria del cancro in base al suo fatturato sarebbe tra le più importanti del mondo; ma se la si dovesse considerare in base alla sua capacità di sconfiggere la malattia che si prefigge di combattere sarebbe tra le industrie più fallimentari del pianeta.

Nel 1970 una persona su 6 poteva ammalarsi di cancro; nel 1980 il rischio era raddoppiato; nel 1990 si arriva a circa il 40%. Non solo, oggi il tasso di sopravvivenza al cancro è lo stesso del 1950. I tempi della dichiarata guarigione dal cancro rientrano nei 5 anni: se una persona muore dopo 5 anni e un giorno il caso verrà considerato un successo. Sembra che lo scopo dominante sia tenere in vita il paziente per quei 5 anni. Uno studio approfondito ha dimostrato che i pazienti che avevano rifiutato i trattamenti convenzionali del cancro sono vissuti in media tre anni di più. In realtà la guerra contro il cancro è stata un fallimento come quella contro la droga. E i medici che osano consigliare terapie alternative, naturali, vengono sistematicamente isolati, scherniti, disprezzati.

I risultati delle ricerche mediche dipendono da chi le finanzia. Ma nessuno sembra interessato a scoprire perché ci si ammala di cancro, o di qualunque altra patologia: questo farebbe diminuire i profitti e il fatturato. Nessuno ha intenzione di far capire alla gente che il nostro organismo è in grado di neutralizzare, senza l'ausilio di medici e medicine, di 9 malattie su 10 .

Un gruppo di ricercatori ha esaminato le cartelle cliniche di 100 pazienti: solo il 53% degli infarti era stato diagnosticato. Nel corso di uno studio è stato chiesto a 80 medici di esaminare un modello di seni femminili al silicone: i medici sono riusciti a trovare solo metà dei noduli anomali nascosti. Un altro studio ha dimostrato che su pazienti in punto di morte una diagnosi su 4 era sbagliata e che il 70% dei deceduti sottoposti ad autopsia presentavano patologie gravi mai state diagnosticate. In un altro studio avente per oggetto 400 autopsie in più della metà dei casi era stata formulata una diagnosi sbagliata. Anche gli errori della lettura di raggi X si aggira intorno al 30% e anche quando le radiografie vengono visionate una seconda volta solo un terzo degli errori commessi viene individuato.

Nel 1950 un bambino su 14 si ammalava di cancro; nel 1985 la cifra era salita a uno su 4 e nonostante gli ingentissimi finanziamenti le industrie ricercatrici non sembrano provare il minimo imbarazzo per l'abissale fallimento, anzi continuano a chiedere altri e poi altri fondi. In realtà la scienza medica non sa come affrontare il cancro. Se una persona ammalata di cancro e si fa visitare da tre medici diversi riceverà sicuramente tre diverse terapie.

Il problema è che la quasi totalità dei medici non accetta che ci sia un legame tra stile di vita e malattia, tra cibo e cancro, anche se la National Academy of Sciences afferma che il 60% dei casi di cancro nelle donne e il 40% negli uomini sono collegati a fattori nutrizionali. Anche la Britisch Medical Association calcola che almeno un terzo dei casi di cancro è attribuibile all'alimentazione, anche se il legame tra grassi-proteine animali e cancro è ormai inconfutabile. Negano l'esistenza tra stress e sistema immunitario, tra tossiemia e malattie congenite. Ma i medici si ostinano a ignorare tale equazione e si rinnova la nemesi karmica che da millenni grava sulla classe medica, a danno della popolazione.

Fin da quando fu introdotta la mammografia al seno mediante raggi X i medici si accorsero che poteva procurare più casi di cancro di quanti non ne rilevasse. Ogni dose media di raggi X equivale ai danni di 6 sigarette.

Alcuni studi negli Usa hanno dimostrato che l'incidenza del cancro in una determinata zona di un determinato paese aumenta con il numero dei medici presenti in quella zona. La propensione per la radiografia da parte dei medici forse spiega tale fenomeno.

Spunti tratti dal libro "Come impedire al vostro medico di nuocervi" di Vernon Coleman

Ma anche se il meccanismo instaurato in campo medico ha allontanato i medici dal principio ippocratico che recita "Primo non nuocere", ritengo ingiusto trascurare l'importante contributo della medicina e di molti medici i quali, con vero spirito di sacrificio personale, in molte circostanze risultano determinanti per alleviare sofferenze e salvare molte vite, specialmente nei casi di emergenza. L'operato dei medici dovrebbe essere improntato a combattere le cause delle malattie e considerare simultaneamente l'entità umana in tutte le sue componenti fondamentali ed quindi uscire della logica settoriale e dei sintomi in una visione olistica in cui la medicina naturale rientra come branca insostituibile e complementare per il bene integrale dell'uomo.

"Un medico è un uomo che viene pagato per raccontare delle fandonie nella camera del malato, fino a quando la natura

non l'abbia guarito o i rimedi non l'abbiamo ucciso" (A. Furetière).

"Un terzo di ciò mangiamo serve a vivere, gli altri due terzi a far vivere i medici" (Papiro egiziano).