lunedì 25 luglio 2011

Per tutti i sardi..

Se non avessi viaggiato così non sarei indipendentista

di Michela Murgia
Sardegna 24

Non bisogna aver paura se il presidente Cappellacci all’incontro voluto dal governo italiano accetterà tutti i ricatti e darà il suo benestare per vendere la parte imprenditorialmente utile della Tirrenia – cioè il personale e le navi - ai tre porcellini del mar Mediterraneo: Manuel Grimaldi, Gianluigi Aponte e Vincenzo Onorato, ovvero la Compagnia Italiana di Navigazione (detta anche Cin).

Non importa se questi armatori sono sotto inchiesta dell’Antitrust per il recente aumento indiscriminato delle tariffe marittime da e per la Sardegna. Non importa neanche che i debiti della Tirrenia restino a carico del liquidatore statale, il quale con ogni probabilità farà loro fare la fine che hanno fatto le perdite dell’Alitalia nel passaggio alla famosa “cordata”: addosso ai contribuenti. Non conta neanche che nella bozza di accordo la Sardegna abbia una partecipazione di appena il 15%, un peso del tutto ininfluente sulla politica delle rotte e delle tariffe. Anzi. Di tutto questo io sono felice, perché così le condizioni di viaggio per i passeggeri sardi senza alternative torneranno finalmente quelle di una volta.

È la Tirrenia di una volta che ha fatto di me la donna che sono. I suoi bagni luridi hanno aumentato esponenzialmente le risorse del mio sistema immunitario: oggi sono così immunizzata che potrei andare in Indocina senza fare alcuna vaccinazione. Le sue cabine a quattro posti da condividere con perfetti sconosciuti mi hanno fatta diventare tollerante verso le diversità, aperta al nuovo e curiosa degli altri. I ponti insicuri sui quali ho trascorso tante notti perché la poltrona costava troppo mi hanno fatta riflettere sulla fragilità della nostra condizione umana, così esposta ai marosi del destino. Quando riuscivo a pagarmi una poltrona era in condizioni tali da farmi valutare come alternativa anche il linoleum scrostato del pavimento, insegnandomi che quando credi che il peggio sia arrivato, non è detto che sia davvero così. L’offerta di cibo nelle sue mense mi ha forgiata all’esercizio di un digiuno liberante.

La difficoltà di viaggiare con quelle vecchie carrette, sempre piene o con tratte lente a massimo risparmio di carburante, mi ha educata al valore della rinuncia, insegnandomi a non prendere le occasioni al volo, che non si sa mai dove ti portano. Vedere che per i turisti d'estate venivano messe navi migliori e più veloci mi ha insegnato che dall'altra parte del mare qualcuno era convinto che i sardi meritassero gli scarti, tanto non potevano scegliere.

Per me la vecchia Tirrenia monopolistica è stata una maestra di vita e una scuola di filosofia impareggiabile. Senza la Tirrenia io non sarei indipendentista, perché niente è mai stato efficace come la sua inefficienza - e la volontà politica di lasciarla tale - per farmi capire quanto la nostra libertà di far parte del resto del mondo fosse condizionata dalle decisioni altrui. Chissà che un ritorno al salubre passato non aiuti altri sardi a realizzare le stesse conclusioni.

24 luglio 2011

Link originale: http://www.sardegna24.net/dialoghi/michela-murgia/se-non-avessi-viaggiato-cosi-non-sarei-indipendentista-1.8276

giovedì 21 luglio 2011

Vieni avanti, Brunetta!

di PierGiorgio Odifreddi

Il Non Senso della Vita


Finalmente, sembra che anche i suoi ritardati colleghi di governo si siano accorti che il ministro Brunetta ha qualche problema in testa. A dire il vero, non solo le persone accelerate, ma anche quelle semplicemente normali, se n’erano accorte già molto tempo fa, vedendo un filmato su YouTube tratto da Matrix del 18 giugno 2008.

In un’intervista a un incredulo Enrico Mentana, il piccolo grande uomo aveva infatti rivelato di avere avuto maiuscole ambizioni: precisamente, di aver voluto vincere il Nobel per l’economia. Il conduttore cercando di salvarlo, osservò: “Spero che stia scherzando”. Ma lui, imperterrito, precisò che era veramente stato nella giusta categoria. Poi, purtroppo, “aveva prevalso l’amore per la politica”. Mentana, attonito, ribattè: “Se no l’avrebbe vinto?”. E Brunetta, serissimo, rispose soltanto: “Sì”.

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giovedì 23 giugno 2011

Qualcosa si muove

di Giorgio Cremaschi

Liberazione.

Perché i lavoratori, i cittadini, il popolo greco dovrebbero impiccarsi alla corda degli strozzini di tutta Europa? Perché la Grecia dovrebbe rinunciare a stato sociale, diritti, regole, sicurezza; vendere all’incanto i propri beni comuni, a partire proprio dall’acqua, per far quadrare i conti delle grandi banche europee e americane? Questa è la domanda di fondo che si pone oggi in quel paese e, a breve, in tutta Europa. Si dice che i debiti devono essere sempre pagati, e così quello pubblico della Grecia. Tuttavia quando due anni e mezzo fa le principali banche occidentali rischiavano il fallimento, i governi stanziarono da 3.000 a 5.000 miliardi di euro, secondo le diverse stime, per salvare le banche private ed i loro profitti. Oggi si nega alla Grecia da un trentesimo a un cinquantesimo di quella cifra, se non vende tutto,comprese le sue belle isole come sostengono alcuni quotidiani economici tedeschi.

I banchieri e i grandi manager occidentali hanno visto, grazie al colossale intervento pubblico, aumentare del 36% in un anno i propri già lauti guadagni, mentre il reddito medio dei lavoratori greci è calato del 25%. Questa è la realtà su cui sproloquiano gli innamorati dell’Europa delle banche e del rigore. Quei falsi profeti che con l’euro sono riusciti nella magica operazione di svalutare tutte le retribuzioni dei lavoratori europei e di rivalutare tutti i profitti dei loro padroni.

Sì, certo, nelle buone intenzioni l’euro doveva servire ad unificare l’Europa. Nella pratica concreta dei patti di stabilità, di Maastricht, delle politiche liberiste dei governi – di tutti i governi di destra e di sinistra – ha però in realtà distrutto l’unità sociale e persino quella democratica del Continente.

Oggi i governi eletti dai cittadini non decidono nulla sull’economia. Sono i tiranni di Francoforte e di Bruxelles che decretano quello che si deve o non si deve fare. Questo è a tal punto vero che il Belgio sta sperimentando l’assenza di un governo democratico da quasi due anni. Ormai quel paese è direttamente amministrato dai commessi, dai funzionari, dai manager dei poteri europei.

Abbiamo già scritto che questa Europa fa schifo. Essa è in grado di fare la guerra in Libia, e su questo ha solo torto il Presidente della Repubblica a voler andare avanti, ma non di varare una politica sociale comune, né per i migranti né per i suoi più antichi cittadini. La più importante conquista civile e democratica dopo la sconfitta del fascismo, il patrimonio che l’Europa oggi potrebbe consegnare all’umanità – lo stato sociale, i diritti di cittadinanza, la partecipazione democratica – viene sacrificato sull’altare delle banche e della finanza.

Questa Europa va rovesciata. Non in nome delle piccole patrie razziste e xenofobe, delle ridicole padanie capaci solo di rivendicare targhette per i ministeri e spietatezza con i poveri, soprattutto se vengono da fuori. L’Italia ha cominciato a liberarsi di Berlusconi e di Bossi, ed è forse più avanti nel capire che non è il populismo razzista l’alternativa al potere liberista europeo, anzi, è semplicemente la faccia più sporca di quella stessa medaglia. L’Italia ha cominciato a liberarsi, ma questa liberazione sarà vera quando verrà rovesciato il potere degli usurai che in tutta Europa stanno imponendo il massacro sociale, con il ricatto del mercato selvaggio e della globalizzazione.

Occorre una rivoluzione democratica e sociale dei popoli europei che rovesci l’Europa delle banche, della finanza, dei ricchi. Bisogna non pagare questo debito e far invece cadere, finalmente, i costi della crisi su chi l’ha provocata. Il piccolo popolo islandese ha già votato in un referendum il mandato ai propri governi di non pagare il debito per salvare la speculazione mondiale. Questo chiedono gli indignados spagnoli, così come i cittadini greci davanti al loro parlamento totalmente esautorato di ogni reale potere. Dalla Grecia, che ha inventato la parola democrazia, deve partire la riscossa democratica di tutti i popoli d’Europa.


Fonte: Liberazione (22 giugno 2011).


DEMOCRAZIA CONTRO MITOLOGIA: LA BATTAGLIA IN PIAZZA SYNTAGMA

STURDYBLOG

Non sono mai stato tanto determinato e speranzoso di cercare di far comprendere un fatto: che le proteste in Grecia vi riguardano tutti da vicino.

Quello che sta accadendo in questo momento ad Atene è la resistenza contro un’invasione, un’invasione brutale quanto quella subita dalla Polonia nel 1939. L’esercito degli invasori indossa completi di sartoria invece delle uniformi e porta con sé computer portatili invece delle pistole, ma non ci sbagliamo: l’attacco alla nostra sovranità è altrettanto violento e meticoloso. Gli interessi dei capitali privati stanno dettando la politica di una nazione sovrana, in modo smaccato e contrario ai nostri interessi nazionali. Ignoratelo a vostro rischio e pericolo. Dite a voi stessi, se si va, che forse la cosa si fermerà qui. Che forse gli ufficiali giudiziari non andranno oltre il Portogallo e l’Irlanda. E poi Spagna e Regno Unito. Ma la cosa è già in movimento. Questa è la ragione per cui non vi potere permettere di ignorare questi eventi.

I potenti hanno suggerito che ci sono un sacco di cose da vendere. Josef Schlarmann, un membro di lunga data del partito di Angela Merkel, ci ha di recente suggerito che sarebbe il caso di vendere alcune delle nostre isole ai compratori privati per riuscire a pagare gli interessi dei nostri prestiti, che ci sono stati imposti per stabilizzare le istituzioni finanziarie e un esperimento monetario destinato al fallimento. (Naturalmente, non è una coincidenza che le ultime ricerche hanno scoperto immense riserve di gas naturale nel Mar Egeo).

La Cina ci si sta buttando a capofitto perché ha enormi riserve di moneta e più di un terzo di queste sono in Euro. I siti di interesse storico come l’Acropoli potrebbero passare ai privati. E se non facciamo come ci è stato detto e come risulta dalle palesi minacce, ci penseranno i politici stranieri più responsabili a farlo con la forza. Del Partenone e dell’antica Agorà facciamone un parco Disney, dove gli indigeni mal pagati si vestiranno da Platone o da Socrate e faranno sbizzarrire le fantasie dei ricchi.

È di vitale importanza far capire che io non voglio scusare i miei connazionali per le loro responsabilità. Ne abbiamo fatte di cose sbagliate. Ho lasciato la Grecia nel 1991 e ci sono ritornato fino al 2006. Nei primi mesi mi guardavo intorno e vedevo un paese completamente diverso da quello che mi ero lasciato alle spalle. Tutti i pannelli per le affissioni, le fermate degli autobus, le pagine di tutte le riviste pubblicizzavano prestiti a bassi interessi. Era una distribuzione di soldi gratuita. Hai un prestito che non riesci a sostenere? Vieni e prendine uno più grande e ti daremo un buono per una lap dance in omaggio. E i nomi scritti in fondo a questi annunci non erano proprio sconosciuti: HSBC, Citibank, Credit Agricole, Eurobank, eccetera.

Mi dispiace ammettere che abbiamo proprio abboccato. La psiche greca ha sempre avuto un tallone d’Achille, una crisi d’identità sempre latente. Siamo all'incrocio di tre continenti e la nostra cultura, proprio per questo motivo, è sempre stata un crogiolo. Invece di apprezzare questa ricchezza, abbiamo deciso di essere solo Europei, Capitalisti, Moderni, Occidentali. E, dannazione, dovevamo esserne assolutamente capaci. Saremmo diventati i più Europei, i più Capitalisti, i più Moderni, i più Occidentali. Eravamo degli adolescenti con la prestigiosa carta di credito dei propri genitori.

Non riuscivo a vedere un paio di occhiali da sole senza il marchio di Diesel o di Prada. Non c'era un paio di infradito senza il logo di Versace o di D&G. Le auto che mi circondavano erano quasi tutte Mercedes e BMW. Se qualcuno decideva di andare in vacanza in un posto più vicino della Thailandia, cercava di mantenere il segreto. C’era una spaventosa mancanza di senso comune e neppure la minima percezione che questo flusso di ricchezza non fosse inesauribile. Siamo diventati una nazione sonnambula che si avvicinava al precipizio buio della nostra piscina, costruita da poco con le sue belle piapiastrelle italiane, senza preoccuparsi che a un certo punto le nostre dita non sarebbero riuscite a toccarne il fondo.

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lunedì 20 giugno 2011

Il potere del popolo

Erica Chenoweth


SOJURNERS magazine

Il 25 gennaio 2011, sono scoppiate dimostrazioni di massa in Egitto, al grido di: “Ne abbiamo abbastanza!” e “Svegliatevi, svegliati, figlio del mio paese. Venite Egiziani!” Sebbene ci fossero violenti giri di vite alle manifestazioni, da parte del governo egiziano la maggioranza schiacciante dell’attivismo protestatorio era non violento. Diciotto giorni dopo, il presidente Mubarak, un dittatore che era stato al potere per 30 anni, si è dimesso.

In dieci giorni del XXI secolo, rivoluzioni riuscite in nome del “potere del popolo” in Tunisia, Egitto, Libano, Georgia, Ucraina, Nepal e le Maldive hanno costretto a importanti cambiamenti i poteri radicati puntando sulla resistenza “civile”, un metodo di resistenza nel quale i civili ritirano la loro collaborazione ai regimi oppressivi, spesso usando varie azioni: scioperi, boicottaggi, sit-in, assenze dal lavoro, e altri atti di disobbedienza civile.

La resistenza civile non è sempre uguale alla “non violenza” – una pratica che spesso evoca immagini di Gandhi come suo principale sostenitore. Il metodo scelto da Gandhi di usare la resistenza di civile di massa per opporsi al dominio britannico nel subcontinente asiatico meridionale aveva una forte dimensione morale – è una avversione di principio verso l’uso della violenza. La storia della resistenza civile, però, rivela che molta gente ha contato sulla resistenza civile non per ragioni morali, ma perché pensavano che sarebbe stata un’alternativa efficace alla violenza per raggiungere i loro scopi.

Per scoprire se la resistenza civile è generalmente un’opzione più efficace rispetto alla resistenza violenta, tra il 2006 e il 2008 ho raccolto dati da libri, enciclopedie, notiziari, archivi, insiemi di dati e riviste accademiche Per costituire un nuovo base di dati delle campagne di resistenza di massa non violenta che comportavano richieste di cambiamento di regime o di indipendenza territoriale. Ho guardato dove e quando nascevano queste campagne, alle caratteristiche dei personaggi a cui si opponevano e se esse avevano esito positivo o fallivano. Ho poi paragonato questi risultati con i dati sui tassi di successo delle proteste violente.

I risultati sono stati sorprendenti. Su 323 importanti insurrezioni e movimenti di massa non violenti che si sono verificati dal 1900 al 2006, le campagne non violente erano state due volte più efficaci rispetto alle insurrezioni violente, con esito positivo il 55% delle volte. In effetti, le azioni di massa non violente che hanno avuto esito positivo, si sono verificate in nazioni molto diverse tra loro come: Serbia, Polonia, Madagascar, Sud Africa, Cile, Venezuela, Georgia, Ucraina, Libano e Nepal.

In che modo le rivoluzioni non violente guidate da civili fanno crollare alcune delle più repressive dittature del nostro tempo? Primo: la campagne non violente normalmente richiamano un numero molto maggiore di partecipanti rispetto alle campagne violente. In media, le campagne non violente hanno più del quadruplo di partecipanti attivi (circa 200.000) della media delle campagne violente (50.000). Questo accade perché le campagne non violente si rivolgono a un settore più ampio della società rispetto alle campagne violente. Le tattiche usate: scioperi, boicottaggi, e scioperi bianchi sono alla portata di settori trasversali della società: giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri e persone con diverse ideologie politiche e religiose. Ci sono minori barriere morali per la partecipazione a proteste e dimostrazioni che insistono su metodi pacifici (quantunque forti). Inoltre, la partecipazione alla resistenza civile non richiede che una persona si dia alla clandestinità o che sacrifichi la propria vita quotidiana. Anche se spesso sia ad alto rischio, la partecipazione alla resistenza civile può essere più spontanea e anonima a causa del numero di persone che vi sono coinvolte. D’altra parte, le campagne violente generalmente richiedono forza fisica, resistenza e agilità, la volontà di sacrificare la propria vita quotidiana e la volontà di voler rimuovere ogni riluttanza a cambiare vita per la causa – tutte restrizioni che escludono una vasta parte di qualsiasi popolazione.

Secondo, quando moltissime persone si mobilitano pacificamente contro regimi repressivi, spesso neutralizzano importanti fonti di potere: i burocrati statali, le élite economiche, e anche le forze di sicurezza.

Per esempio, il 5 giugno 1989, una mezza dozzina di carri armati avanzavano verso la Piazza Tiananmen a Pechino per continuare un giro di vite durato vari giorni nei riguardi di migliaia di dimostranti che chiedevano riforme politiche ed economiche nel regime autoritario del paese. Mentre si avvicinavano a Tienanmen, uno sconosciuto, da solo, si mise sul percorso dei carri armati, con una busta di plastica in mano. Quando fu chiaro che l’uomo non aveva intenzione di spostarsi, il carro armato in testa si fermò sobbalzando proprio a pochi metri dall’uomo. Dopo una pausa, il mezzo si buttò sulla destra per superare l’uomo che invece saltò a sinistra bloccandogli il passaggio. Anche il carro armato che veniva dietro, si fermò, e, per pochi momenti, l’uomo e il carro armato rimasero fermi sulla strada, uno di fronte all’altro, in un’immagine che era un’icona della resistenza civile. Prima che si ponesse fine all’atto di non cooperazione dell’ “Uomo del carro armato” la sua risolutezza sconcertò i soldati in un modi che gli insorti armati non riescono a fare.

Le campagne di resistenza non violenta sono particolarmente adatte a convincere le forze di sicurezza di smettere la repressione e, in alcuni casi, a unirsi alla resistenza. Poiché la resistenza civile generalmente comprende una più vasta base di partecipanti che rappresentano un campione più vario della società, le forze di sicurezza spesso si identificano con i partecipanti alla campagna, per mezzo di legami etnici, religiosi, di classe, culturali o perfino famigliari. Le defezioni delle forze di polizia si sono verificate nel 54% di campagne non violente che hanno avuto esito positivo.

Le campagne violente non hanno un buon nel convincere le forze di sicurezza a disertare. La ragione è abbastanza intuitiva. Quando le forze di sicurezza percepiscono una minaccia fisica, tendono a unirsi per difendersi. Immaginate che l’Uomo del Carro armato si fosse preso un’arma dalla busta che aveva in mano e avesse sparato sui carri armati quando cominciavano a muoversi attorno a lui. L’immagine dell’Uomo del carro armato non avrebbe più rappresentato la legittimità e il coraggio della causa pro-democrazia in Cina. Avrebbe, invece, affrontato i soldati secondo il suo punti di vista e usando un metodo che dà ai militari un chiaro vantaggio. Sarebbe stato soltanto un altro ribelle anonimo che affrontava la violenza con la violenza.

La capacità di creare divisioni all’interno del regime, dipende da un’attenta pianificazione, organizzazione, addestramento e unità all’interno dell’opposizione. Ma una volta che le forze di sicurezza si rifiutano di reprimere i dimostranti pacifici, i regimi tendono ad accogliere le richieste dei dimostranti. Notate che questo accade non a causa della superiorità morale della resistenza non violenta. Il motivo per cui il potere della gente funziona non è quello per cui “i bravi ragazzi” vincono sempre. Le campagne di resistenza civile ben programmate riescono a usare a loro vantaggio la larga partecipazione che hanno, per far crollare il regime con modi che non hanno a disposizione, invece, dimostrazioni con minore partecipazione e che sono più violente.

La solita domanda che spesso ci si pone è: la resistenza civile può avere successo anche contro oppositori brutali? E i Nazisti? Ci sono numerosi esempi di resistenza non violenta contro i brutali metodi usati nel genocidio dal regime nazista durante la Seconda guerra mondiale. Uno di questi è la protesta che c’è stata a Berlino, in Rosenstrasse, nel marzo del 1943. In seguito alla sconfitta militare di Hitler nella battaglia di Stalingrado, i Nazisti hanno accelerato la “soluzione finale”, l’affrettando la deportazione e l’uccisione di milioni di ebrei, zingari, prigionieri di guerra ed altri. A Berlino, le truppe paramilitari SS hanno trattenuto circa 2.000 uomini ebrei che prima erano stati risparmiati perché le loro mogli erano tedesche non ebree. Queste donne hanno cominciato a radunarsi fuori dall’edificio di Rosenstrasse dove gli uomini erano rinchiusi. Giorno e notte, le donne hanno occupato le strade scandendo le parole: ”Ridateci i nostri mariti.” Alla fine, centinaia, se non migliaia di persone si sono unite alla protesta, perfino quando le SS di guardia hanno installato le mitragliatrici e hanno minacciato di fare fuoco sui dimostranti. La protesta è durata una settimana e alla fine di questa le SS hanno rilasciato gli uomini. Quasi tutti sono riusciti a sopravvivere alla guerra.

Questo evento straordinario dimostra il potere dell’azione organizzata, non violenta e diretta, anche contro le dittature più brutali. Una semplice iscrizione sul monumento commemorativo denominato “Block der Frauen ( “Blocco delle donne”) testimonia il fatto: “La forza della disobbedienza civile, il vigore dell’amore, supera la violenza della dittatura. Ridateci i nostri uomini. Le donne stavano in piedi qui, per sconfiggere la morte. Gli uomini ebrei furono liberati.” *

E, di fatto, la tendenza generale suggerisce che perfino nelle situazioni un cui i regimi usavano la violenza per schiacciare le campagne di resistenza, il 46% delle campagne non violente hanno prevalso, mentre soltanto il 20% delle campagne violente ce l’ha fatta contro questi stati violentemente repressivi.

I dati ci dicono che delle cose che prima non sapevamo. Primo, c’è poca verità nell’affermazione che gli insorti devono usare la violenza per ottenere ciò che vogliono. Molti osservatori sostengono che la gente ricorre alla violenza quando è costretta a farlo - da circostanze di eccessiva repressione, da ingiustizie che non riescono più a sopportare - e dopo aver esaurito tutti gli altri mezzi di influenza politica.

Si sente molto spesso questa affermazione da parte di insorti, studiosi, e sapientoni che sostengono che i rivoltosi Sunniti in Iraq, i Mujahdeen afgani e perfino il Fronte per la Liberazione Nazionale Farabundo Marti in El Salvador hanno dovuto scegliere la violenza per le loro lotte, perché era l’unico modo che avessero per riuscire. Lo stesso Gandhi – la quintessenza del pacifismo – una volta ha detto che “E’ meglio essere violenti se c’è violenza nei nostri cuori, piuttosto che rivestirsi dei un manto di non violenza per nascondere la propria impotenza.” Al contrario di queste ipotesi, la resistenza non violenta si è dimostrata essere un modo molto più potente di realizzare gli scopo politici, anche in ambienti dove vige una repressione brutale.

Secondo, una resistenza civile non violenta può creare divisioni e può far cadere i regimi quando le forze di sicurezza si stancano di reprimere i propri connazionali disarmati. Più è varia la campagna di protesta, è maggiore è la probabilità che produca defezioni tra le forze di sicurezza. Qualsiasi campagna troppo omogenea (che, per esempio, che dipenda da una forte componente religiosa senza però un motivo più ampi di attrazione) avrà difficoltà di riuscita perché non attirerà una porzione abbastanza vasta di persone che fornisca svariati punti di accesso ai potenziali alleati all’interno del regime. Per esempio, una rivoluzione cittadina spesso otterrà scarso appoggio dai funzionari di regime che sono originari della campagna.

Terza cosa, che è forse la più sorprendente, l’appoggio materiale da parte di stati stranieri, ha poco effetto sul successo delle campagne non violente. Soltanto il 10% di queste campagne ha ricevuto appoggio materiale diretto da parte di governi stranieri, e in quei casi, può aver prodotto disunione all’interno della campagna o può aver indebolito la legittimità del movimento agli occhi di potenziali sostenitori della base. Come ha detto di recente Richard K. Betts, esperto di sicurezza nazionale, replicando a una domanda sui modi che le istituzioni statunitensi preposte alla sicurezza avrebbero dovuto reagire alle proteste in Egitto: “Le rivoluzioni popolari possono essere contenute o incanalate efficacemente dalle forze straniere.” L’appoggio morale, però, e anche dare un nome e esporre alla vergogna gli abusi di un regime oppressivo, tagliare gli aiuti finanziari o militari al regime e fare dichiarazioni diplomatiche in appoggio al movimento – possono incoraggiare i partecipanti a mantenere l’entusiasmo e l’impegno.

In generale, i dati forniscono la prova concreta che la resistenza non violenta non è affatto passiva o debole. Gandhi aveva ragione quando diceva: “La non violenza è l’arma dei forti.” Guardando lo svolgersi degli avvenimenti nel mondo arabo e altrove, dovremmo tenere a mente che i richiami a usare la violenza per opporsi ai regimi repressivi non sono quasi mai giustificate dalla necessità. Applicazioni sapienti del “potere del popolo” sono state le forze più robuste e affidabili per ottenere cambiamenti nel mondo fin dalla II Guerra mondiale e questo orientamento è probabile che continui a lungo anche nel XXI secolo.

Erica Chenoweth è assistente universitaria di Scienze politiche alla Università Wesleyan e coautrice con Maria J. Stephan del libro di prossima pubblicazione: Why Civil Resistance works: Tha Strategic Logic of Nonviolent Conflict (Perché la resistenza civile funziona: la logica strategica del conflitto non violento.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza vive

Traduzione di Maria Chiara Starace

Orig. (ita) http://znetitaly.altervista.org/traduz3/chenoweth-poterepo.html
Orig. (eng) http://www.zcommunications.org/people-power-by-erica-chenoweth

venerdì 27 maggio 2011

Obama e l'arte di farsi fraintendere

di Comidad


Non solo a Berlusconi tocca di essere continuamente "frainteso". Lunedì scorso anche il presidente USA Barack Obama ci ha fatto sapere che la sua "proposta" di un ritorno dello Stato di Israele ai confini precedenti alla guerra dei Sei Giorni del 1967 era stata male interpretata. Per quanto possa apparire incredibile, la "proposta" di Obama era stata oggetto di una accanita discussione diplomatica e giornalistica, ovviamente fondata sul nulla, dato che la propaganda non ha regole molto diverse da quelle dei normali rapporti umani, dove spesso il prospettare a qualcuno attese esagerate costituisce l'espediente più sicuro per non concedergli assolutamente niente. Nel caso dei Palestinesi, una proposta seria avrebbe dovuto partire infatti dalla questione all'ordine del giorno, e cioè dal far cessare i massacri quotidianamente perpetrati dall'esercito israeliano e dalle organizzazioni paramilitari dei coloni.

Ma adesso ancora una volta non mancheranno commentatori disposti a credere che la onnipotente lobby israeliana abbia costretto il povero e benintenzionato Obama a fare marcia indietro, accreditando quindi l'ipotesi che egli avesse voluto parlare sul serio. Se Obama dovesse rimanere vittima in futuro di attentati o scandali, allora quelle sue parole sui confini di Israele saranno interpretate come il motivo del complotto.
Persino all'ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Strauss-Kahn, dopo il complotto che l'ha colpito a New York, è toccato di essere santificato a causa di alcune dichiarazioni da lui rilasciate qualche tempo fa, circa la necessità di sostituire il dollaro come moneta di pagamento internazionale. Anzi, le fosche previsioni sul futuro di Strauss-Kahn erano cominciate addirittura prima che il complotto statunitense ai suoi danni si consumasse materialmente.
In realtà è dal 1971 che vi sono dichiarazioni e dibattiti riguardo all'accantonamento del dollaro. Con la istituzione del WTO (l'Organizzazione Mondiale per il Commercio) nel 1995, era stato dato addirittura per acquisito che dovesse instaurarsi una concorrenza tra le varie valute per costituire monete di pagamento alternative a livello internazionale. La propaganda ufficiale ammette tranquillamente che si discuta a vuoto del presunto "declino americano" e sul come dare spazio alle, altrettanto presunte, "potenze emergenti", come la Cina, l'India e il Brasile.
C'è tutta una pubblicistica a riguardo che rientra perfettamente in questo "understatement" tipico della propaganda statunitense, che consiste nel fingersi piccoli e inermi prima di azzannare. Non è infatti solo il FMI ad avere allo "studio" progetti di superamento del dominio del dollaro, ma persino la Banca Mondiale, che da sempre è a direzione statunitense. (1)
L'Unione Europea ha istituito la moneta unica proprio sulla base della prospettiva di poter far proprio il business della moneta di pagamento internazionale, che, come è noto, consente di stampare molta più moneta di quanta non sia necessaria per i pagamenti interni, e ciò senza rischiare inflazione, poiché la gran parte delle risorse valutarie circolano all'estero. Nessuno però si era fatto male per le astratte dichiarazioni anti-dollaro in sede UE e WTO, ed anche l'Euro è stato adottato tranquillamente. L'invasione dell'Iraq del 2003 e l'eliminazione di Saddam Hussein sono avvenute invece non in base alle astratte dichiarazioni del "dittatore", ma nel momento in cui questi aveva effettivamente cominciato a farsi pagare il petrolio in euro piuttosto che in dollari.

In questi anni di direzione del FMI, Strauss-Kahn ha compiuto un lavoro davvero "ottimo", strangolando non soltanto i soliti Paesi africani o latino-americani, ma anche Paesi come la Grecia, l'Irlanda, il Portogallo e la Spagna. Anche grazie a Strauss-Kahn, il FMI è riuscito a trasformare in proprie colonie non solo il Mali o il Burundi o il Paraguay, ma una parte consistente dell'Europa sviluppata; perciò non è irrealistico ritenere che egli abbia pagato proprio per i suoi successi, nel momento in cui si trattava di spartirsi il bottino della rapina.
Nonostante che l'idea di colonizzare e saccheggiare una parte dell'Europa sia nata proprio in Europa, non c'è nulla di strano che oggi la finanza statunitense non voglia dividere il bottino alla pari con i complici europei. Nei film di rapine, è nel momento della spartizione che i complici cominciano a spararsi addosso. Senza voler ricorrere ad esempi cinematografici, per capire cosa sia successo al rapinatore francese Strauss-Kahn, basta ricordarsi della favola di Esopo in cui l'asino finisce mangiato solo per aver pensato di poter dividere la preda in parti uguali col leone.
Quando si tratterà di spartirsi il bottino in Libia, si può essere certi che gli Usa, sebbene oggi meno esposti nell'impegno militare, faranno ancora una volta valere la logica del patto leonino nei confronti di Francia e Gran Bretagna, che pure sono quelle che stanno mettendo in campo tutti i loro mezzi nella guerra libica. Se si tratta di capire come funziona l'imperialismo/colonialismo, l'unico modello analitico attendibile è quello del crimine organizzato; ma un crimine organizzato che ha in più la risorsa delle pubbliche relazioni, cioè del confondere le acque agitando false speranze.

Credere che Strauss-Kahn abbia pagato dazio solo per aver "tremonteggiato", cioè imitato Tremonti nel darsi le arie di fustigatore dei soprusi della oligarchia finanziaria mondiale, significa infatti non comprendere che la funzione della propaganda dei potenti non è solo quella di esagerare e mentire, ma soprattutto di sottrarre ai sudditi anche il ruolo del progressista e del ribelle. Ai potenti infatti spetta anche il privilegio di recitare tutte le parti in commedia, in modo da presentarsi come la "speranza" di riscatto per i deboli e i diseredati. Tanto, quando si tratta di arrivare al dunque, si può sempre dire di essere stati "fraintesi".

Così, invece delle realistiche favole di Esopo, ci è toccato in Italia di ascoltare le fiabe assurde di un Berlusconi in conflitto con i "poteri forti" internazionali, e di un Tremonti "critico della globalizzazione", come se tutte le privatizzazioni e le agevolazioni legislative a favore delle multinazionali, decise dal governo in questi anni, non fossero mai avvenute. Non c'è quindi da stupirsi se già circola la fiaba di un Obama in contrasto con il sionismo. Obama è talmente bravo a farsi fraintendere che gli hanno pure assegnato un premio Nobel per la pace; ed anche quando nel discorso di accettazione ha affermato di essere stato frainteso, lo ha fatto in modo tale che si continua a fraintenderlo.

http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=425

venerdì 13 maggio 2011

DIMENTICANDO L'AQUILA

DI LUCA PAKAROV
comedonchisciotte.org

Più che altro sembra ci sia stato un maremoto. Sono rimasti cocci, bottiglie rotte e microfoni spenti. L’ultimo è stato il presidente Napolitano ma l’impressione generale è che ministri e capi di stato siano un lontano ricordo. Le celebrità solidarizzano già con altre sciagure. Sparite associazioni e bande musicali. A L’Aquila vengono solo sottosottosottosegretari, soprintendenti delle Belle Arti, portaborse, gente senza scorta, comparse cioè di un sistema che ha già suonato il de profundis.

D’altronde, parliamoci chiaro, cosa vogliono ancora gli aquilani ? Vivono dentro le tendopoli? Hanno fatto le vacanze al mare? Stanno nei container come i poveracci dell’Irpinia? Hanno tutti una lavatrice e un televisore al plasma? Sono stati risarciti? Hanno intascato i fondi per le aziende? Il lavoro è ripartito? E allora?

Allora, se qualcuno seriamente si è posto tali domande, se anche per un secondo avete fatto certe considerazioni, allora significa che il Potere va come un treno e che avete in pappa il cervello. Perché non c’è da scomodare Adorno per sapere che non è il giudizio informato a creare l’opinione ma l’autorità dominante. Le notizie invecchiano rapidamente e l’autorità vuole che il caso L’Aquila sia chiuso. Le telecamere sono spente e il padrone del mondo ci dice con il silenzio dei giornali, della televisione e, nella peggiore delle ipotesi, con gli invitati a Forum taroccati, che a L’Aquila tutto è stato fatto, che ora tocca agli aquilani rimboccarsi le maniche. Mica, da mezzi meridionali quali sono, vorranno assistenza per tutta la vita? E no cari aquilani.

Questo è il messaggio confuso ma disarmante a cui è sottoposto subdolamente l’italiano da un po’ di tempo a questa parte. Basta chiedere in giro. Ormai siamo occupati con disgrazie più generose di immagini, amori tragici e inquinamento-stermina-tutti. Un brusio indistinto come sottofondo e la memoria selettiva hanno sedimentato nella penisola un’immagine di L’Aquila che corrisponde più o meno a quello delle baite in Trentino, casette in legno, prati verdissimi, uccelletti canterini, rose fiorite e ruscelli benefici. D'altronde se qualcuno ha speso 300mila euro di copertura mediatica per ogni sua comparsata a L’Aquila, se con il sisma di L’Aquila si sono recuperati consensi, impossibile sarebbe ammettere un qualsiasi fallimento. Ma in una città bombardata, finita la guerra, ti aspetti di vedere gente arrampicata sulle impalcature, gru, sacchi di cemento e impastatrici che girano pure la notte. Non ti aspetti che sia madre natura ad occuparsene, che sia lei con misericordiosa iniziativa ed efficientissima spontaneità a ricoprire di verde, di muschi e pianticelle, i resti a terra di quella che, a dar retta alla geografia ufficiale, ancora è un capoluogo di regione.

Quando arrivo per prima cosa vado in cerca di un ufficio informazioni. Lo trovo in corrispondenza del cimitero in un container nel quale mi accoglie una donna sulla cinquantina. Mi mostra una cartina, mi indica le due strade visitabili poi mi sorride. Faccio per andarmene ma lei mi ferma, appena imbarazzata mi dice, semmai ne avessi la curiosità, arrivato alla fine del corso, di girare a destra, in via XX settembre, lì troverò la casa dello studente e quella dell’avvocato che ha perso tutta la famiglia. La guardo allibita e lei si giustifica abbassando gli occhi, che sono in tanti a chiederlo. Quando ci si abitua all’eccezionalità, a schivare le macerie per mesi e camminare fra case pericolanti, la tentazione è proprio questa, la totale distruzione può diventare una macabra attrazione turistica. Questo è il mio primo pensiero, solo in seguito scoprirò il significato di questa indicazione, quando mi ritroverò a camminare per la città che, tecnicamente, non è più una città. E’ un luogo surreale, perché nei luoghi surreali c’è sempre un silenzio surreale e fantasmi e costruzioni strambe, cassetti aperti, cani randagi, armadi, orologi liquidi che vengono giù da un imprecisato punto del cielo. C’è odore di segatura e di cemento. In un vicolo un operaio utilizza un martello e fischietta un motivetto che fa rabbrividire. Dietro tanta follia non ci sono Dalì o Buñuel, no, ci sono i nomi che tutti conosciamo e di cui nessuno parla più, di chi, consapevolmente, in un modo o in un altro eppure sempre avidamente, ha tratto vantaggio da questa situazione: il signor Assassino e la signora Carogna, mister Porcio e madame Iena, il piccolo Bastardo e il grande Corrotto. A questo punto mi torna in mente il mondo reale, due anni orsono qui è successa una cosa, un fatto che tutti ricordiamo ma che lentamente, a causa forse del dissacratorio modus vivendi di uno società agonizzante, una società pronta ad ingoiare ogni evento senza masticarlo, dove ogni vicenda umana è destinata a diventare spazzatura finita l’emozione del momento, dopo un martirio comunicativo degno di Orwell, sta diventando un fatto come un altro, una normale situazione straordinaria. Cause, responsabilità, interventi non contano più nulla, ormai l’insensato è robusto, ben piazzato, radicato nella quotidianità. La gente è fuori e il centro è morto, le speranze al macero, ecco tutto.

Un po’ di pudore mi consiglia di non far domande, di abbassare la testa, di lasciare questa persone con il proprio dolore e la propria disillusione, di scappare via, di fingere che tutto questo non possa essere vero. Finché non leggo un cartello ad una transenna che dice: “l’unico aiuto che potete dare è riportare con onestà quello che vedete e fare in modo che tutti conoscano la dignità e la forza che ci fanno andare avanti”. Capisco allora che il consiglio della signora all’ufficio informazioni era solo un gesto d’amore per la sua città.

Ho contato tre bar aperti nel centro, gli altri sono sistemati tutti come bancarelle sul viale della Croce Rossa. In uno trovo Alfredo che subito mi chiede di dove sono. Gli spiego che da dove vengo io il terremoto lo conosciamo e questo sembra un punto comune che ci mette a nostro agio. Mi ripete sia lui che gli altri che incontrerò in avanti, che il timore maggiore è che vengano abbandonati, dimenticati. Per questo hanno tutti una gran voglia di parlare, di sfogarsi, di far conoscere le proprie storie, perché il terremoto è un evento totalizzante, una faccenda che ha squassato ogni cellula degli aquilani ed ora, dopo essere stati al centro del mondo, dopo le pagliacciate internazionalizzate, dopo che gli sciacalli si sono saziati, dopo che mangiafuoco ha sbaraccato il teatrino, questo tragico silenzio li terrorizza.

Quando faccio sapere che sono qui per capire cosa è successo, diventano un fiume in piena, come il barista di Paganica che mi serve il caffè nel container piazzato lungo la strada per Onna e che lui, con i suoi risparmi, ha dovuto comprare. Parla a denti stretti poi mi conduce nella via dietro, dove c’è il vecchio bar. Ci sono crepe che c’entrano una mano. Sai quanto ho avuto dallo stato? Ottocento euro per tre mesi. Questo è il trattamento per i commercianti. Tiro a campare ma da dicembre non so cosa succederà visto che dovremo tornare a pagare le tasse al 100%. La presa per il culo massima è che gli aquilani dovranno risarcire anche le tasse degli ultimi sei mesi, visto che lo slittamento fino a dicembre era stata considerata solo una proroga.

Ad Onna si rimane basiti. Lo spettacolo è raccapricciante e insopportabile. Il paese è un mucchietto di residui trapassati, pietre che almeno fino a qualche tempo fa sembravano denunciare quel 6 aprile ma che ormai sono oltre la linea muta della storia. Onna, malgrado tutto, è un paese fortunato, il governo tedesco si è impegnato nella sua ricostruzione in ricordo della strage di 17 innocenti che i nazisti trucidarono durante la ritirata. Pare che in questo affare anche la Thyssen abbia sborsato parecchio, il che, sinceramente, fa un po’ ridere quando poi la stessa chiede di essere risarcita da chi crepa dentro le sue fonderie. Come a dire che il bene non è mai scevro dal male. Ma il nostro è un pianeta delle contraddizioni, allungano una mano dopo che ti hanno massacrato o se devono lavarsi la coscienza.

Nando invece, insegnante di musica ora trasferitosi a Cagnano, mi racconta che quel senso di solidarietà che si respirava dopo il sisma sta svanendo, ora stanno emergendo piccoli e pericolosi campanilismi alimentati anche dalle 57 amministrazioni comunali che sono entrate in quello che viene chiamato “cratere”, cioè fra quelle a cui in teoria verranno concessi fondi straordinari e condizioni privilegiate per la ricostruzione. Ovvero l’unica vera possibilità che le piccole urbanizzazioni, i borghi, hanno per evitare lo spopolamento. Ognuno così rivendica qualcosa. Quel sindaco è stato più bravo, l’altro meno. Lì costruiranno, là no. E’ comprensibile che tutti, terminata l’emergenza, cerchino di tirare l’acqua al proprio mulino, l’individualismo fa parte dell’umano, ma rattrista comunque. Mi parla anche della Fintecna, società controllata dal Ministero dell’Economia, che ha il compito di rilasciare i finanziamenti per la ricostruzione, fino a 150mila euro. Questa ed altre società sono pronte a comprare ad un prezzo irrisorio le case che prima costavano 5mila euro a metro quadro, come per esempio quelle di via Vittorio Emanule. Paradossalmente per gli aquilani, se qualcuno che non vive a L’Aquila si sta adoperando per fregarsi le case migliori, significa che su in alto si è deciso che prima o poi la città ripartirà.

A L’Aquila, città senza cittadini, c’è il traffico di Roma e non ci sono indicazioni, la gente gira a vuoto in cerca di un ufficio così io che devo prendere verso Teramo mi accorgo che passo come un idiota sulla stessa via per cinque volte. Fermo un tizio che, dalla livrea, è appena uscito da un cantiere. Rinor, giovane macedone, mi dice che deve andare nella mia stessa direzione e in cambio di un passaggio si propone per accompagnarmi. Lui viveva in affitto. Ora si ritrova con una casa piena di lussi, addirittura dentro il bagno delle C.A.S.E. ci ha trovato lo spazzolone. Cosa potevo voler di più? Certo si trova fuori mano e per comprare un pacco di pasta devo fare 10 km di macchina ma si sente baciato dalla fortuna. Ci ripensa un attimo, mi dice, Se anche avessero rubato un po’… che male c’è? Res Ipsa Loquitur.

Il mio punto di vista non assomiglia al suo ma io qui non ci vivo e questa, attualmente, è una bella fortuna. Comunque riesce ad indicarmi la strada che cercavo. Ma al di là di ogni giudizio sulle considerazioni dei singoli mi pare che il trend sia chiaro: chi non aveva nulla ci ha guadagnato una casa e in qualche modo ha trovato la spinta per ricominciare, chi aveva poco, come il barista, ha perso tutto, chi aveva molto si ritrova con poco. Oltre a questi ci sono gli esperti della filiera ricostruttiva, architetti, ingegneri, geometri, burocrati a cui il lavoro ora non manca di certo. E potete starne sicuri, in un paese marcio di corruzione, gli abruzzesi non fanno eccezione.

Ma le iniziative populiste continuano, per lo meno a ridosso delle elezioni. Sono stati stanziati fondi per le aziende che verranno erogati solo nel 2015 quando, verosimilmente, ci sarà un altro governo. Ha ripreso vita la pensata fantastica del ministro Romani: L’Aquila zona franca. Niente IVA. Tutta Italia verosimilmente arriverà qua per comprare sigarette e benzina. I nuovi centri commerciali, dove ora gli aquilani vanno a sbattere la testa come animali in gabbia drogati, gioiscono. Verosimilmente tutti i commercianti un passo fuori dalla provincia di L’Aquila andranno in rovina ma insomma, c’est la vie!

Ma quello che più fa impazzire è che, in un paese normale, dopo tanto vomito, dopo tutte le offese ricevute e i malaffari e le puttane e la tracotanza eccetera eccetera, ci si potrebbe aspettare per lo meno di avere un sistema di forche ben funzionante o, come minimo, che alle prossime elezioni i partiti da votare si chiamino la Gironda, Montagna e Padule, quelli proprio della Rivoluzione Francese. Com’è possibile che il potere si rafforzi grazie ad una disgrazia che ha gestito solo come un profitto, come una merce? Ma forse la domanda è un’altra, seriamente, cosa stiamo diventando? Cosa devono farci ancora? Siamo più informati, abbiamo accesso a tutte le notizie immaginabili, eppure siamo superficiali, stupidi e ignoranti. A pensare che il povero Leopardi avvisava di un simile pericolo già parecchio tempo addietro.

Detto questo, non rimane che fare un ultimo sforzo. Immaginate, se potete, che ogni mattina che uscite di casa (un modulo abitativo a 10 chilometri dal centro di cui già sappiamo ogni particolare) per andare al lavoro di essere costretti a passare davanti la casa dove siete nati. La casa di proprietà che magari avete ereditato dai vostri genitori. Le finestre sono rotte, la cucina e il frigorifero in cui avevate attaccato l’adesivo della vostra squadra sono in bella vista per uno squarcio nel muro, nel terrazzo ci sono ancora i pantaloni che il 5 di aprile 2009 avevate messo ad asciugare. In quello stesso edificio che ora cercate di non guardare il vostro vicino è stato ritrovato in cantina direttamente dal quarto piano, nella stessa via non abita più nessuno ma ci sono ancora le auto fracassate di alcuni conoscenti. Secondo voi, c’è il rischio che vi abbrutiate? Ci può essere qualche motivo per un rancore incondizionato? Per sputare veleno e fare qualche sciocchezza?

Chi a L’Aquila è di passaggio finisce per provare un profondo rispetto verso gli aquilani; si vorrebbe poter condividere con loro le pene o almeno le fatiche. Mi prometto allora che conserverò gelosamente le vecchine che al passaggio del Cristo in piazza Duomo piangevano, porterò con me lo sguardo del barista di Paganica e le macerie di Onna. Mi dico, da buono studente, che per me questi rimarranno per sempre ricordi su cui riflettere. Perché da una visita a L’Aquila, pure se sono passati due anni, se ne esce con le ossa rotte. Ma proprio mentre lo penso ho anche l’inquietante percezione degli agguati che mi aspettano appena imboccherò l’autostrada. So, temo, che prima o poi l’idiozia in ogni sua forma spettacolare, che sia una partita di Champions o l’ultima legge abominevole, annichilirà questa mio amaro frastorno facendomi tornare a quella vita (sub)reale senza sofferenze reali, questa vita leggera che si concretizza solo in desideri passeggeri fatti di prodotti per il corpo e automobili parlanti. Ci saranno altri terremoti e altri brutali assassini su cui dibattere qualche ora. Ci sarà sempre una notizia più importante di quella vecchia. Di nuovo plastici e approfondimenti. Sempre piacevolmente intrattenuti, informati e narcotizzati.

Luca Pakarov, scrittore e giornalista free-lance, "settantasettino memore di scritture su varie riviste anarchiche spagnole", ha scritto l'antologia di racconti 'Terminal' (Edizioni Clandestine, 2007) e ha pubblicato diversi articoli su Rolling Stone magazine (di cui qualcuno ripreso qui su Comedonchisciotte).
Riguardo all'articolo pubblicato qui sopra dichiara:
L'ho scritto veramente più per gli aquilani che per me. Non so, sentivo che dovevo loro qualcosa...

Fonte: www.comedonchisciotte.org