martedì 3 novembre 2009

Diana Blefari Melazzi

Dalla famiglia nobile alla lotta armata la vita in fuga della compagna Maria

di ALBERTO CUSTODERO
da Repubblica


È morta suicida come la madre baronessa, Diana Blefari Melazzi, la donna che fece il salto da una famiglia di buona borghesia dei Parioli - una zia ambasciatrice d'Italia in Romania - alla lotta armata. Aveva 40 anni. L'ex "compagna Maria" fu definita "una dura", "una rivoluzionaria prigioniera" dagli agenti della Digos che l'ammanettarono a tre giorni dal Natale del 2003. "Datemi gli occhiali", apostrofò Diana Blefari Melazzi i poliziotti che, pistole spianate, fecero irruzione nel residence Triangolo di Santa Marinella dove, in precipitosa fuga, s'era rifugiata. "Faccio parte del Partito comunista combattente", fu l'unica ammissione della custode del covo-deposito di via Montecuccoli. Quella donna di 34 anni che prima di finire in prigione per l'omicidio Biagi (ma partecipò anche a quello D'Antona), vestiva maschio stile centri sociali, e si recava al lavoro - un'edicola della capitale - a cavalcioni di una moto enduro rossa 350 di cilindrata, ha retto per alcuni mesi all'isolamento del 41 bis. Poi, nel 2005, durante il processo di primo grado che la condannò all'ergastolo, è crollata. Da quel momento Diana Blefari Melazzi, pur "in assenza di qualsiasi resipiscenza", come hanno scritto i giudici dell'Assise d'appello, è diventata l'ex "compagna Maria". E s'è trasformata in un'altra persona. L'ombra di se stessa.

Le numerose perizie psichiatriche cui è stata sottoposta nel corso dei tre processi (il primo grado fu annullato dalla Cassazione e rifatto solo per lei proprio perché non fu valutato il suo stato di prostrazione), le diagnosticarono la patologia che colpisce chi subisce un incidente, o affronta un lutto. "Disturbo post traumatico da stress". Dove il trauma che devastò la mente della detenuta sottoposta per tre volte al carcere duro del 41 bis era la condanna in primo grado all'ergastolo. Per questo si può dire dunque che è stata uccisa dalla depressione post ergastolo.

Debole, depressa, sofferente, dal mondo violento delle Br a poco a poco si è rintanata in un nuovo universo fatto di solitudine e di rifiuto della vita ai limiti dell'autismo. Da quell'isolamento Diana Blefari Melazzi uscì con uno scatto di rabbia nel 2008, quando, in un momento di delirio, aggredì gli agenti della polizia penitenziaria, meritandosi un altro processo. A quel dormiveglia esistenziale alternava comportamenti che gli psichiatri definivano "paranoici". I suoi lunghi silenzi, ad esempio, erano interrotti solo da frasi di paura, veri attacchi di panico che le facevano apparire ovunque complotti. Temeva che il cibo fosse avvelenato e che intorno a lei si aggirassero, come fantasmi, sicari incaricati da Massimo D'Alema di ucciderla. Era uscita dal carcere duro e stava fra le detenute comuni, ma in una cella singola dalla quale usciva solo quando gli specialisti le prescrivevano un trattamento sanitario obbligatorio e la trasferivano, per cure, a Sollicciano. Ora che se n'è andata strangolandosi con un lenzuolo, si parla di suicidio annunciato, ma per anni i suoi avvocati hanno denunciato fino quasi a gridarlo che quella brigatista stava rischiando la vita, lasciandosi lentamente morire. Come quando rifiutò il cibo, in un'occasione, addirittura per 28 giorni.

L'allarme più inquietante non arrivò dai suoi legali, ma dal Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Fu lui, il 10 novembre di due anni fa, a denunciare che alla ex brigatista era stato inflitto "per la terza volta il 41 bis senza tenere in considerazione la sua malattia: schizofrenica e inabile psichicamente, figlia di una madre anche lei con una malattia depressiva morta suicida". Ma tutti questi allarmi sono stati vani. La giustizia ha seguito inesorabile il suo percorso. Nonostante, secondo i familiari, non avesse mai avuto "alcun rapporto coi difensori che ha sempre rifiutato di incontrare, non avesse mai letto un atto giudiziario, non fosse mai comparsa in aula e non si rendesse conto neppure dello stato delle sue vicende giudiziarie", prigioniera del suo stato depressivo, i giudici l'hanno sempre giudicata "in grado di stare in giudizio e di rapportarsi al processo". I giudici avevano ammesso "l'indubbio stato di sofferenza della Blefari", ma quella sofferenza "derivava - a loro parere - dallo stato di consapevolezza del processo". La perizia di appello stabilì che i suoi "atteggiamenti apparentemente paranoici, come il rifiuto del cibo, erano una reazione coerente al suo modo di porsi e conseguenza di un forte impatto dell'ideologia Br sulla sua personalità".