venerdì 21 febbraio 2014
giovedì 13 febbraio 2014
Dio ci deve delle spiegazioni
Due anni fa ho scritto su Rolling Stone un pezzo sullo scioglimento degli Skiantos e su quanto Antoni non abbia avuto il riconoscimento che meritava, a partite dalle battute che tutti gli rubavano – come “La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo”. Il pezzo era intitolato “Roberto Freak Antoni ha un problema. E’ vivo”. Qualche amico oggi ha commentato, malinconicamente: “Problema risolto”. Ma direi di no."
SKIANTOS: NOI, LA MUSICA ITALIANA, IL “PUBBLICO DI MERDA”. INTERVISTA (INEDITA) DEL 2009. dal Blog di Paolo Madeddu
martedì 9 aprile 2013
Intervista con Vittorio Sermonti
di Antonio Gnoli
Non ha una faccia né una voce qualsiasi Vittorio Sermonti. Entrambe, in fondo, ci hanno fatto conoscere meglio Dante e poi Virgilio. Mi verrebbe voglia di ringraziarlo a nome di tutte quelle persone che sono state incuriosite, scosse e attratte dalle sue memorabili letture pubbliche. Ha una mente ospitale, Sermonti. Ci si può accomodare nei suoi ragionamenti sentendosi accuditi.
Risiede, insieme alla moglie Ludovica, in una comoda casa della collina Fleming. È un quartiere romano che conosco poco. Abitato da gente agiata. So che ci vive Zdenek Zeman. E chiedo a Sermonti, che sul calcio italiano ha scritto un delizioso ed eruditissimo libro occasionato dalla vittoria dell´Italia ai mondiali del 1982, se conosce il "Mister" o dovrei dire l´ex, vista la fine ingloriosa del boemo.
Mi guarda sconcertato. E dice di non saperne nulla. Poi, quasi a voler mitigare la mia delusione, sorride e aggiunge che è molto amico di Dino Zoff, che abita non lontano. Mi incuriosisce il "molto". E penso a quel leggendario portiere così avaro di parole (quanto Zeman del resto) e mi chiedo di che cosa discetteranno: di Dante? Della Juventus di cui Sermonti è un appassionato tifoso? Chissà. E a proposito del "molto" aggiunge che ci sono amicizie su cui pesa la dolcezza del conformismo. Ma che non tutte sono uguali.
Ce n´è una che ricorda in modo particolare?Quale?
«Ce ne sarebbero diverse. Quella con Cesare Garboli, con il quale non mancarono momenti di tensione. Ci conoscemmo a casa di Niccolò Gallo, dove spesso si ritrovavano Pasolini, Parise, Dessì, Delfini. Cesare aveva una teatralità innata. A volte sembrava Gassman. Decidemmo, a un certo punto, di dare l´esame scritto di latino con Ettore Paratore. Si profilò una specie di incubo. Preparando l´esame, capitava che andassi a casa di Cesare. Studiammo benissimo. Lui era fortissimo in greco, io un po´ meno. Le ore trascorse ci mettevano appetito e una volta accadde un fatto particolare».
«Si viveva nell´alone del dopoguerra. C´era ancora lo spettro della fame. E a un certo punto Cesare tirò fuori, dalla madia, una rosetta di pane. Durissima. La bagnò e l´aprì a metà. Poi la pose sul gas a scaldare. Ma il fornello si spense. Alla fine mangiammo pane e gas».
E l´esame?
«Fummo in pochi a passarlo. Poi mi trasferii a studiare a Firenze, e qui qualche anno dopo cominciai a frequentare Roberto Longhi e a lavorare come redattore per la rivista Paragone. Ricordo interminabili partite a bocce nella sua villa e conversazioni dove parlava solo lui, con la sigaretta accesa, permanentemente incollata su di un lato della bocca. Era geniale, un difetto che hanno in pochi».
Di quali anni parliamo?
«Credo fosse il 1954. Avevo lasciato da poco la Rai, dove ero stato assunto nel 1950 come giovanissimo funzionario al Terzo programma radiofonico. C´era gente interessante allora. Mi capitò di intrattenere rapporti di scontrosa familiarità con personaggi anche notevoli, come per esempio Gadda».
L´aneddotica su di lui è vasta.
«È vero, potrei dirle che c´erano certi giorni in cui si trascinava nei corridoi tirandomi per la giacca e dicendo cose irripetibili su alcuni suoi colleghi. Ma al di là di ciò dava l'impressione di essere un uomo misterioso, che arrivava da un buio antico, da un dolore indicibile che ha prodotto uno stile ecumenico. Senza ombra di dubbio è stato il più grande scrittore italiano del ´900».
Come argomenterebbe questa affermazione?
«Sentì più di ogni altro la carenza di vocalità dell´italiano. Avendo l´italiano poca voce, necessita del supporto del canto o del dialetto. Ma Gadda non era uno scrittore dialettale. Inventò una lingua vocale che si appoggiava ai dialetti. Si comportò come Dante con la Commedia. Che dopo aver detto che tutti i dialetti fanno schifo, che non ce ne è uno che valga "la pantera profumata del volgare illustre", scrive utilizzando di tutto: desinenze, calate, strutture sintattiche delle parlate che conosceva e perfino di quelle che gli erano ignote».
A lei come è accaduto di occuparsi di Dante, nel modo particolare in cui l´ha fatto?
«Guardi, ci sono due persone alle quali sono riconoscente. Una è mia moglie che è qui con me e l´altra è Gianfranco Contini che avevo conosciuto un pomeriggio in casa Longhi. Vidi quest´uomo molto compito, che giocava malissimo alle bocce, e che mi mise una certa soggezione. Mi capitò in seguito di leggere un suo saggio dedicato a Dante: semplicemente strepitoso. E quando nel 1986 decisi di realizzare il mio progetto dantesco andai a trovarlo».
Dove vi vedeste?
«A casa sua a Firenze. Gli esposi l´idea e in pratica gli chiesi di mettermi una mano sulla testa e benedirmi. Mi guardò e poi disse: "mi foni", intendeva: mi legga qualcosa di Dante. Aprii il quinto canto dell´Inferno e incominciai. Dopo un po´ mi interruppe: l´ha solfeggiato benissimo, ora lo legga. A quel punto mi sentii completamente libero. Conclusi la lettura con grande soddisfazione di entrambi. Le volte che andai a casa sua lavoravamo in cucina. Correggeva con estrema parsimonia alcuni dettagli di stile. Fu un uomo generoso, dotato di una immensa cultura e di una lingua straordinaria».
Un po´ come quella di Longhi.
«Decisamente. E mi viene da pensare che le grandi pagine di critica, ma soprattutto di poesia e di letteratura, sono un insieme di parole che non si possono scastrare. Non posso dire: Sesamo, fammi la cortesia, apriti. Perché non si aprirà mai».
Le piacciono gli scrittori italiani?
«Ho avuto rapporti ottimi con grandi lettori, con i dantisti, con i musicisti e con la gente comune. Meno con gli scrittori, una categoria che mi annoia terribilmente».
A parte Gadda?
«A parte lui, ho ammirato il rigore di Calvino e la moralità di Pasolini. Il quale scrisse cose notevolissime, ma non certo nei suoi romanzi. Fu un impasto singolare di contraddizioni: un narciso terribile, affetto da masochismo eroico, ma anche dotato di un coraggio morale raro in Italia. Però non mi era simpatico, come non lo ero io a lui. Mi considerava un borghese. Con l´aggravante di aver sposato in prime nozze una figlia di Susanna Agnelli».
Quali sono le sue origini?
«Mio padre era un avvocato. Credo che abbia avuto un peso nella mia vita perché mi leggeva Dante quando avevo dieci anni. Il mio padrino di nascita era stato Vittorio Emanuele Orlando. Mio nonno, anche lui avvocato, fu il primo nel processo Notarbartolo a Palermo a pronunciare la parola "mafia". Tanto è vero che la famiglia fu costretta a trasferirsi a Roma. Consuocero di mio nonno era Beneduce. E delle volte che capitavamo a casa sua, ricordo delle partite di poker alle quali, in un paio di occasioni, partecipò Enrico Cuccia, genero di Beneduce».
A Cuccia piaceva il poker?
«Non lo so. Già allora era abbastanza enigmatico. Credo che lo facesse per far piacere a sua suocera. Ma non era molto divertente giocare con la moglie di Beneduce perché considerava il bluff un imbroglio».
In fondo la sua storia è quella di un giovane privilegiato.
«Mi mantengo dall´età di 19 anni. Da ragazzo ho sperato nella musica. Ho cominciato a suonare il pianoforte a 16 anni ma non avevo talento. O non abbastanza. Ho fatto altro. Riuscendo anche molto bene: ho tradotto, ho commentato, ho scritto libri. Racconti, romanzi, libretti. Ho amato la poesia, la musicalità che essa esprime. Quando voglio parlare bene di essa dico che è il contrario della pornografia».
L'opposto dell´osceno?
«La pornografia stabilisce un rapporto di desiderio tra un puro soggetto e un puro oggetto. Il mio desiderio che si accende in me per un iPad, una velina, una Smart è il desiderio per qualcosa che non mi desidera. Invece la circolarità del desiderio è la proprietà del linguaggio poetico che si svolge in falde della persona anche molto segrete. Questa distinzione mi consente di definire che cosa sia per me la volgarità».
Viviamo tempi molto volgari?
«Spudoratamente volgari. Senza vergogna alcuna. Ma ogni generazione ha le sue plebi. Imbecilli ci sono sempre stati, dappertutto, tra i vecchi e tra i giovani».
Internet è un fattore di crescita?
«Siamo dentro una grande rivoluzione culturale, non c´è dubbio. Ma quelle che adoperiamo sono tecnologie belliche che non potendo essere utilizzate in una guerra globale, vengono rivolte contro noi stessi. Creano desideri indotti che diventano bisogni. Sospetto che dopo l´ennesima e sofisticata realizzazione algoritmica, torneranno i dinosauri. Mi creda, la globalizzazione mondiale sta creando suscettibilità molto provinciali».
Come definirebbe il desiderio?
«La realizzazione di un Io che non conosce l´Io. Insomma sguazziamo nell´Inconscio».
Aver desiderato da giovane di essere un pianista e non esserci riuscito cosa le ha provocato?
«L´idea di non poter essere stato un altro non mi turba. Anzi mi crea dei ricordi dell´inesistito che mi sono particolarmente cari, essendo io una persona che aspira ad essere un altro».
Un altro? Cosa direbbe sua moglie?
«Credo che approverebbe. Siamo insieme da trent´anni e il nostro rapporto è stato di gratitudine e ammirazione reciproca. Vede, non viviamo in una casa straordinaria. Però il sole sorge in quella direzione della finestra dove siamo in questo momento. E si vedono cose incredibili: strappi neri, argento, una luce che improvvisamente diventa arancione e poi sbianca.
E quando ci sono le nuvole sembrano fantastiche e meglio dipinte che dal Tiepolo. Ancora ci meravigliamo. Mi capita a volte di riflettere su quel detto di Heidegger: "Denken ist danken", pensare è ringraziare. È così. Tra di noi ci ringraziamo. Qualche volta litighiamo, ma io so che, grazie a lei, andrò verso la morte senza spavento. Mi scoccia un po´ il morire, ma non provo angoscia. Nella mia vita ho perso anche una figlia e questo ha creato un rapporto più soffice con il dopo».
In che senso?
«Meno estraneo. Sto raccogliendo da una quindicina di anni una serie di aforismi che ruotano attorno all´idea che la morte non esiste. Sostengo che questa signora che viene quando vuole e ti sorprende in realtà non c´è. Ci sono le persone che a un certo punto se ne vanno e con le quali non hai più rapporti: vengono sfilate, creano una ferita, ma poi la ferita si rimargina. La morte non esiste, esistono i morti e a un certo punto mi viene il sospetto che praticamente non esistano che loro».
«Meno estraneo. Sto raccogliendo da una quindicina di anni una serie di aforismi che ruotano attorno all´idea che la morte non esiste. Sostengo che questa signora che viene quando vuole e ti sorprende in realtà non c´è. Ci sono le persone che a un certo punto se ne vanno e con le quali non hai più rapporti: vengono sfilate, creano una ferita, ma poi la ferita si rimargina. La morte non esiste, esistono i morti e a un certo punto mi viene il sospetto che praticamente non esistano che loro».
martedì 30 ottobre 2012
STORIA DI UNA SBORNIA FINANZIARIA CHE SEMBRA UNA BARZELLETTA
Helga è la proprietaria di un bar… di quelli dove si beve forte.
Rendendosi conto che quasi tutti i suoi clienti sono disoccupati e che quindi dovranno ridurre le consumazioni e frequentazioni, escogita un geniale piano di marketing, consentendo loro di bere subito e pagare in seguito. Segna quindi le bevute su un libro che diventa il libro dei crediti (cioè dei debiti dei clienti). La formula “bevi ora, paga dopo” è un successone: la voce si sparge, gli affari aumentano e il bar di Helga diventa il più importante della città.
Lei ogni tanto rialza i prezzi delle bevande e naturalmente nessuno protesta, visto che nessuno paga: è un rialzo virtuale. Così il volume delle vendite aumenta ancora. La banca di Helga, rassicurata dal giro d’affari, le aumenta il fido. In fondo, dicono i risk manager, il fido è garantito da tutti i crediti che il bar vanta verso i clienti: il collaterale a garanzia.
Intanto l’Ufficio Investimenti & Alchimie Finanziarie della banca ha una pensata geniale. Prendono i crediti del bar di Helga e li usano come garanzia per emettere un’obbligazione nuova fiammante e collocarla sui mercati internazionali: gli Sbornia Bond.
I bond ottengono subito un rating di AA+ come quello della banca che li emette, e gli investitori non si accorgono che i titoli sono di fatto garantiti da debiti di ubriaconi disoccupati. Così, dato che rendono bene, tutti li comprano. Conseguentemente il prezzo sale, quindi arrivano anche i gestori dei Fondi pensione a comprare, attirati dall’irresistibile combinazione di un bond con alto rating, che rende tanto e il cui prezzo sale sempre.
E i portafogli, in giro per il mondo, si riempiono di Sbornia Bond. Un giorno però, alla banca di Helga arriva un nuovo direttore che, visto che in giro c’è aria di crisi, tanto per non rischiare le riduce il fido e le chiede di rientrare per la parte in eccesso al nuovo limite. A questo punto Helga, per trovare i soldi, comincia a chiedere ai clienti di pagare i loro debiti. Il che è ovviamente impossibile essendo loro dei disoccupati che si sono anche bevuti tutti i risparmi. Helga non è quindi in grado di ripagare il fido e la banca le taglia i fondi. Il bar fallisce e tutti gli impiegati si trovano per strada.
Il prezzo degli Sbornia Bond crolla del 90%. La banca che li ha emessi entra in crisi di liquidità e congela immediatamente l’attività: niente più prestiti alle aziende. L’attività economica locale si paralizza. Intanto i fornitori di Helga, che in virtù del suo successo, le avevano fornito gli alcolici con grandi dilazioni di pagamento, si ritrovano ora pieni di crediti inesigibili visto che lei non può più pagare. Purtroppo avevano anche investito negli Sbornia Bond, sui quali ora perdono il 90%. Il fornitore di birra inizia prima a licenziare e poi fallisce. Il fornitore di vino viene invece acquisito da un’azienda concorrente che chiude subito lo stabilimento locale, manda a casa gli impiegati e delocalizza a 6.000 chilometri di distanza. Per fortuna la banca viene invece salvata da un mega prestito governativo senza richiesta di garanzie e a tasso zero. Per reperire i fondi necessari il governo ha semplicemente tassato tutti quelli che non erano mai stati al bar di Helga perché astemi o troppo impegnati a lavorare.
Bene, ora potete dilettarvi ad applicare la dinamica degli Sbornia Bond alle cronache di questi giorni, giusto per aver chiaro chi è ubriaco e chi sobrio.
venerdì 5 ottobre 2012
Netanyau, l’Iran e la bomba
Piergiorgio Odifreddi
Il non-senso della vita
Link originale
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2012/10/01/netanyau-liran-e-la-bomba/
Il non-senso della vita
Nel corso dei secoli, i detrattori della scienza hanno prefigurato gli scenari più catastrofici sui suoi possibili sviluppi. L’apprendista stregone di Goethe, il Frankenstein di Mary Shelley, Il Dottor Jekill e Mister Hyde di Stephenson, Il dottor Moreau di Wells, mettevano tutti in guardia sul pericolo che le scoperte scientifiche potessero scappare di mano agli scienziati e provocare guai inimmaginabili.
Talmente inimmaginabili, che l’immaginazione dei letterati non riuscì a immaginare qualcosa anche solo lontanamente paragonabile alla mostruosità delle due bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti sul Giappone nell’agosto 1945. Si trattò del più grande crimine contro l’umanità e del peggior atto di terrorismo della storia: 300.000 esseri umani, pari a cento volte le vittime degli attentati dell’11 settembre 2001 di New York, svanirono in due funghi atomici in un paio di secondi.
Per una macabra prefigurazione del contrappasso di mezzo secolo dopo, l’impresa atomica di Los Alamos si chiamava Progetto Manhattan. Il suo direttore, il fisico Oppenheimer, citò la Bhagavad Gita per descrivere lo “splendore di mille soli” che si era levato nel cielo, e dichiarò che i fisici avevano “conosciuto il peccato”. Il matematico Von Neumann, a cui si ispirò Kubrick per la figura del Dottor Stranamore, commentò cinicamente che “a volte qualcuno confessa un peccato per prendersene il merito”.
A costruire gli ordigni, comunque, gli scienziati alleati c’erano andati quasi tutti, con la scusa del pericolo che Hitler potesse arrivare prima di loro alla bomba. Le uniche eccezioni degne di note erano state Einstein, Wiener e il nostro Rasetti: uno dei ragazzi di via Panisperna, che per non sporcarsi le mani abbandonò addirittura la fisica, e passò alla biologia.
E praticamente tutti quelli che c’erano andati, ci rimasero: anche dopo la fine del 1944, quando i servizi segreti erano ormai certi che i tedeschi alla bomba non ci stavano lavorando. L’unico che “fece il gran rifiuto” fu Rotblatt: all’epoca guardato con gran sospetto e trattato da spia, ma nel 1995 vincitore del premio Nobel per la pace per non “aver tradito la propria professione”, alla stregua del Galileo di Brecht.
Quanto agli scienziati nazisti, da Heisenberg a Hahn, nell’agosto del 1945 erano prigionieri degli inglesi, in una villa vicino a Cambridge piena di microfoni. E le registrazioni documentano il loro sgomento alla notizia che gli scienziati alleati avessero osato fare ciò che loro avevano rifiutato. Le interpretazioni divergono, ma i fatti sono univoci: a costruire e usare le bombe furono Roosevelt e Truman, non Hitler, e a costruirle furono gli scienziati alleati, non quelli nazisti. A loro enostra perenne vergogna.
Ecco perché le discussioni sulle bombe iraniane sono oziose: perchè sono proposte dalla superpotenza che le ha per prima costruite e usate. E vengono echeggiate da un alleato israeliano che possiede centinaia di testate nucleari.
Cioè da farisei che pretendono che non venga fatto a loro ciò che essi fanno agli altri..
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